«Dunque rifugge da qualcosa. Potrei obiettare che un uomo che fugge non è mai interamente libero.»
«E io, signore, potrei chiederle da cosa rifugge lei su questo promontorio isolato. Se rifugge dalla violenza del suo lavoro, è stato singolarmente sfortunato.»
«E ora la stessa violenza ha toccato anche la sua vita. Mi dispiace.»
«Non deve dispiacersi. Un uomo che vive nella natura è abituato alla violenza ed è in rapporti amichevoli con la morte. In una siepe inglese c'è più violenza che nelle vie più malfamate di una metropoli.»
Quando arrivarono al mulino, Dalgliesh telefonò a Rickards. Non era in ufficio, ma gli passarono Oliphant che gli assicurò che sarebbe arrivato subito. Poi Dalgliesh accompagnò Jonah al piano di sopra per mostrargli le scarpe che aveva portato con sé. Calzavano tutte bene, tuttavia Jonah le provò a una a una e le esaminò con cura prima di scegliere. Dalgliesh fu tentato di commentare che un'esistenza di semplicità e di rinunce non aveva fatto perdere al suo ospite l'occhio per le buone calzature, e fu con un certo rammarico che lo vide scegliere il paio che preferiva, il più costoso.
Jonah prese a camminare avanti e indietro in camera da letto, guardandosi i piedi con aria soddisfatta, poi disse: «Sembra che abbia fatto un buon affare. Le Bumble erano capitate al momento giusto, ma non erano adatte per camminare a lungo e avevo intenzione di rimpiazzarle appena se ne fosse presentata l'occasione. Le regole della strada sono poche e semplici, ma categoriche. Gliele consiglio: tenere sgombro l'intestino, fare il bagno una volta alla settimana, portare lana o cotone sulla pelle e cuoio ai piedi».
Un quarto d'ora dopo l'ospite era seduto in poltrona, con una tazza di caffè in mano, e non smetteva di guardarsi compiaciuto i piedi. Oliphant arrivò molto presto, accompagnato dall'autista. Entrò in salotto e portò con sé un'atmosfera di brusca e autoritaria minaccia. Prima ancora che Dalgliesh avesse fatto le presentazioni, si rivolse a Jonah: «Doveva sapere che non aveva nessun diritto di tenersi quelle scarpe da ginnastica. Sono nuove, e non è lecito appropriarsi di ciò che si trova».
«Un attimo, sergente» intervenne Dalgliesh. Lo prese in disparte e disse a bassa voce: «Tratti educatamente il signor Jonah». E prima che Oliphant potesse protestare, soggiunse: «Va bene, le risparmierò il disturbo di dirlo: il caso non è di mia competenza. Ma adesso quest'uomo è ospite in casa mia. Se i suoi agenti avessero cercato meglio sul promontorio lunedì scorso, tutti e tre ci saremmo risparmiati un notevole imbarazzo».
«Quello è un individuo sospetto, signore. Ha le scarpe.»
«Ha anche un coltello e ammette di essere stato sul promontorio domenica notte» disse Dalgliesh. «Lo tratti pure come un individuo sospetto, se riesce a trovare un movente o la prova che sapeva in che modo uccideva il Fischiatore, o almeno che esistesse un assassino soprannominato così. Ma perchè non ascolta quello che ha da dire prima di balzare a conclusioni affrettate sulla sua colpevolezza?»
«Colpevole o no» ribatté Oliphant, «è un testimone importante. Non possiamo certo permettergli di andarsene a spasso tranquillamente.»
«E io non so come potreste impedirglielo legalmente. Ma questo, sergente, è un problema suo.»
Dopo qualche minuto, Oliphant scortò Jonah alla macchina, accompagnato da Dalgliesh. Prima di salire sull'auto, Jonah si rivolse a lui.
«È stato un giorno sfortunato per me quello in cui l'ho incontrata, Adam Dalgliesh.»
«Ma forse è stato un giorno fortunato per la giustizia.»
«Oh, la giustizia! È di questo che si occupa? Mi sa che è arrivato un po' tardi. Il pianeta terra sta ormai precipitando verso la distruzione. Quel bastione di cemento, in riva a un mare contaminato, potrebbe portare le tenebre eterne. Se la fine non verrà per qualche altra follia dell'uomo. Viene un giorno in cui ogni scienziato, Dio incluso, deve rinunciare a un esperimento. Ah, vedo un certo sollievo sul suo volto! Sta pensando: dunque è proprio matto questo strano vagabondo. Non devo più prenderlo sul serio.»
«La mia mente è d'accordo con lei» rispose Dalgliesh. «Ma i miei geni sono più ottimisti.»
«Lo so, lo sappiamo tutti. Altrimenti come si può spiegare il malessere dell'uomo moderno? E quando scenderanno definitivamente le tenebre, io morirò come ho vissuto, nel più vicino fosso asciutto.» Poi, con un sorriso singolarmente dolce, aggiunse: «Con le sue scarpe ai piedi, Adam Dalgliesh».
41
L'incontro con Jonah aveva lasciato in Dalgliesh una strana inquietudine. C'erano molti lavori da fare nel mulino, ma non aveva voglia di occuparsene. L'istinto gli suggeriva di salire sulla Jaguar e di correre, correre molto lontano; peccato che avesse provato quell'espediente troppo spesso per credere nella sua efficacia. Il mulino sarebbe stato ancora lì al suo ritorno, i problemi sarebbero rimasti insoluti. Non faticava a riconoscere il motivo della sua insoddisfazione: il coinvolgimento frustrante in un caso che non sarebbe mai stato di sua competenza, ma da cui gli era impossibile prendere le distanze. Ricordava quello che Rickards gli aveva detto la notte del delitto, prima che si separassero:
«Forse non vuole essere coinvolto, signor Dalgliesh, ma è coinvolto. Forse vorrebbe non essere mai stato vicino al cadavere, ma c'è stato.»
A quanto ricordava aveva usato anche lui più o meno le stesse parole rivolgendosi a un individuo sospettato, in uno dei suoi casi. Ora capiva perché erano state accolte tanto male. D'impulso aprì la porta del mulino e salì la scala a pioli fino all'ultimo piano. Aveva l'impressione che lassù sua zia avesse trovato la pace, e forse anche lui avrebbe potuto ritrovare un po' di quella serenità perduta. Ma nonostante le sue speranze, era destinato a non starsene in pace per molto.
Mentre guardava il promontorio dalla finestra a sud, in lontananza apparve una bicicletta. All'inizio era troppo distante per riconoscere chi l'inforcava, poi vide che si trattava di Neil Pascoe. Non si erano mai parlati, ma, come tutti gli abitanti del promontorio, si conoscevano di vista. Pascoe pedalava con pedante determinazione: teneva la testa bassa verso il manubrio e accompagnava il movimento con le spalle. Arrivato nei pressi del mulino si fermò all'improvviso, posò i piedi a terra e alzò gli occhi a fissare la costruzione come se la vedesse per la prima volta; quindi smontò e cominciò a spingere la bicicletta sul terreno accidentato.
Per un attimo Dalgliesh provò la tentazione di far finta di non essere in casa. Poi ricordò che la Jaguar era parcheggiata a fianco del mulino e che Pascoe probabilmente l'aveva visto alla finestra. Quale che fosse lo scopo della sua visita, sembrava impossibile evitarla. Andò alla finestra sopra la porta, l'aprì e gridò: «Sta cercando me?».
La domanda era retorica: chi altri poteva pensare di trovare al Larksoken Mill? Mentre sollevava la faccia con la barbetta verso di lui, la prospettiva lo mostrò a Dalgliesh bizzarramente rimpicciolito e schiacciato, una figura vulnerabile e quasi patetica che si teneva stretta alla bici come per nascondercisi dietro.
«Posso parlarle?» gridò Pascoe nel vento.
Una risposta onesta sarebbe stata: "Se è proprio necessario!". Ma Dalgliesh si rendeva conto che non poteva gridare una cosa simile senza fare la figura del maleducato. «Scendo subito» disse.
Pascoe appoggiò la bicicletta al muro del mulino ed entrò dietro a Dalgliesh in salotto.
«Non ci siamo mai presentati» incominciò, «ma penso che abbia sentito parlare di me. Sono Neil Pascoe, quello che sta nella roulotte. Mi scusi se vengo a disturbarla in un momento in cui forse voleva starsene un po' in pace.» Sembrava imbarazzato come un venditore ambulante che tenti di dimostrare a un potenziale cliente di non essere un imbroglione.
«Vorrei tanto starmene in pace, ma sembra che sia impossibile» avrebbe voluto ribattere Dalgliesh. Invece chiese: «Vuole del caffè?».
Pascoe diede la risposta più prevedibile: «Se non è troppo disturbo...».
«Nessun disturbo. Stavo appunto per prepararlo.»
Pascoe lo seguì in cucina e si appoggiò allo stipite, fingendo un'aria disinvolta ma assai poco convincente, mentre Dalgliesh macinava il caffè e metteva a bollire l'acqua. Dal giorno del suo arrivo al mulino, pensò aveva passato parecchio del suo tempo a fornire cibo e bevande a visitatori non invitati. Quando spense il macinacaffè, Pascoe gli disse in tono quasi aggressivo: «Ho bisogno di parlarle».
«Se si tratta del delitto farebbe meglio a rivolgersi all'ispettore capo Rickards, non a me. Il caso non è assolutamente di mia competenza.»
«Ma lei ha trovato il cadavere.»
«In certe circostanze questo potrebbe rendermi sospetto, ma di certo non mi dà il diritto di intromettermi professionalmente nel caso di competenza di un altro, fuori dalla mia zona di giurisdizione. Non sono io a condurre le indagini. Del resto lei lo sa già, non è uno stupido.»
Pascoe non staccava lo sguardo dal liquido gorgogliante. «Non mi aspetto che sia contento di vedermi. Non sarei neppure venuto se ci fosse stato qualcun altro a cui rivolgermi. Ci sono cose che non posso discutere con Amy.»
«Purché non dimentichi con chi sta parlando...»
«Con un poliziotto. Siete come i preti, no? Non smontate mai di servizio; un prete è sempre un prete.»
Non dissero altro fino a che Dalgliesh ebbe versato il caffè in due tazze che portò in salotto. Si misero a sedere ai due lati del camino. Pascoe prese una tazza con l'aria di chi non sa cosa farne. Continuava a rigirarla fra le mani e a guardare il caffè senza accennare a berlo. Dopo un attimo disse: «Si tratta di Toby Gledhill. Quel ragazzo... sì, era un ragazzo in fondo... quello che si è ucciso nella centrale».
«Ho sentito parlare di Toby Gledhill» rispose Dalgliesh.
«Allora immagino che sappia come è morto: si è buttato sul reattore e si è rotto il collo. È successo venerdì dodici agosto. Due giorni prima, il mercoledì, era venuto a trovarmi verso le otto di sera. Ero solo nella roulotte, Amy era andata a far spese a Norwich con il furgone e voleva fermarsi a vedere un film, quindi sarebbe tornata tardi. Io badavo a Timmy. A un certo punto ho sentito bussare: era lui. Lo conoscevo, naturalmente; o almeno sapevo chi era. L'avevo visto un paio di volte alla centrale, nelle giornate aperte al pubblico. Di solito ci vado. Non possono impedirmelo, e io ne approfitto per fare qualche domanda imbarazzante e contrastare la loro propaganda. Mi pare anche che fosse presente a qualcuna delle sedute per il nuovo reattore ad acqua pressurizzata. Ma naturalmente non lo conoscevo bene. Non riuscivo a immaginare cosa volesse da me; comunque l'ho invitato a entrare e gli ho offerto una birra. Avevo acceso la stufa per far asciugare i vestitini di Timmy, e quindi l'aria nella roulotte era calda e umida. Quando ripenso a quella sera mi pare di rivederlo attraverso una nube di vapore. Dopo la birra mi ha chiesto se non potevamo uscire. Sembrava inquieto, come se la roulotte gli facesse venire la claustrofobia, e più di una volta ha chiesto quando sarebbe tornata Amy. Allora ho preso Timmy dal lettino, me lo sono messo in spalla e ci siamo incamminati verso nord lungo la spiaggia. Eravamo arrivati alle rovine dell'abbazia quando mi ha detto il motivo per cui era venuto. È stato molto franco, senza preamboli. Era arrivato alla conclusione che l'energia nucleare fosse troppo pericolosa per impiegarla e che fino a quando non fosse stato risolto il problema delle scorie radioattive, non si sarebbero dovute costruire altre centrali nucleari. Ha usato un'espressione piuttosto strana. Ha detto: "Non solo è pericolosa, corrompe".»
«Le ha spiegato come era arrivato a questa conclusione?» chiese Dalgliesh.
«Credo che la stesse maturando da diversi mesi; e probabilmente Chernobil gli aveva dato la spinta decisiva. Ha detto che di recente era successo qualcos'altro che aveva contribuito a convincerlo. Non mi ha spiegato cosa, ma ha promesso che me l'avrebbe rivelato dopo aver avuto più tempo per riflettere. Gli ho chiesto se si sarebbe limitato a lasciare il suo impiego o se era disposto a fare qualcosa per aiutarci. Ha risposto che pensava di doverci aiutare: dimettersi non sarebbe stato abbastanza. Per lui era difficile, e lo capivo. Ammirava i suoi colleghi, gli era affezionato. Diceva che erano scienziati seri, uomini intelligenti che credevano in quello che facevano. Lui invece non ci credeva più. Non aveva pensato al futuro, almeno non molto chiaramente. Si sentiva come mi sento io adesso: aveva bisogno di confidarsi e devo essergli sembrato la persona più adatta. Naturalmente sapeva del PANUP.» Pascoe alzò gli occhi verso Dalgliesh e spiegò candidamente: «Sta per People Against Nuclear Power: la popolazione contro l'energia nucleare. Quando è stata fatta la proposta di installare qui il nuovo reattore ho formato un piccolo gruppo locale per fare opposizione. Voglio dire un gruppo di gente del posto, non un'organizzazione nazionale. Non è stato facile. Molti si comportano come se la centrale non ci fosse, e naturalmente tanti sono contenti che ci sia perché porta posti di lavoro e nuovi clienti per pub e negozi. Per la maggior parte l'opposizione al nuovo reattore non è locale: comprende quelli del CND, gli Amici della Terra e Greenpeace. Naturalmente eravamo ben contenti di averli, sono loro quelli con l'artiglieria pesante. Però ritenevo importante anche fare qualcosa a livello locale; non ho lo spirito del gregario, mi piace fare le cose per conto mio».
«E Gledhill dev'essere stato per lei una preda molto ambita» osservò Dalgliesh. Il commento era schietto, e quasi brutale per quello che implicava.
Pascoe arrossì e lo guardò negli occhi. «C'era anche questo aspetto, e me ne rendo conto. Non ero del tutto disinteressato. Voglio dire, sapevo che sarebbe stato importante se fosse passato dalla nostra parte. Ma soprattutto mi sono sentito lusingato che si fosse rivolto a me. Il PANUP non aveva fatto molto colpo; persino la sigla era sbagliata. Volevo che la gente la ricordasse facilmente, ma PANUP... be', fa un po' ridere. Immagino già cosa sta pensando: sarei stato più utile alla causa se mi fossi unito a uno dei gruppi di pressione esistenti invece di darla vinta al mio ego. E ha ragione!»
«Gledhill le ha detto se aveva parlato con qualcuno alla centrale?» chiese Dalgliesh.
«No, non l'aveva ancora fatto. Penso fosse la cosa che temeva di più. In particolare era preoccupato all'idea di doverlo dire a Miles Lessingham. Mentre passeggiavamo sulla spiaggia - Timmy si era addormentato nel suo zainetto sulla mia schiena - Gledhill si sentiva libero di parlare; credo che sfogarsi gli facesse bene. Mi ha detto che Lessingham era innamorato di lui. Gledhill non era gay, ma bisessuale sì. Comunque, ammirava molto Lessingham e aveva la sensazione di averlo deluso. Dava l'impressione di essere completamente confuso circa l'energia atomica, la sua vita privata, la sua carriera... tutto.»
All'improvviso Pascoe parve accorgersi che stava tenendo fra le mani una tazza di caffè. Abbassò la testa e cominciò a bere a grandi sorsi rumorosi, come un assetato. Quando ebbe vuotato la tazza la posò sul pavimento e si asciugò la bocca con la mano.
«Era una serata calda dopo una giornata di pioggia; la notte della luna nuova» riprese. «È strano che lo ricordi. Stavamo camminando sui sassi, appena oltre il limite dell'alta marea, e all'improvviso è comparsa lei, Hilary Robarts. È uscita di corsa dalle onde. Portava solo gli slip del bikini e per un momento si è fermata, con l'acqua che le grondava dai capelli. Splendeva nella luce strana che sembra emanare dal mare nelle notti stellate. Poi si è incamminata lentamente sulla spiaggia, verso di noi. Eravamo rimasti immobili, come ipnotizzati. Lei aveva acceso un fuoco di sterpi e noi ci siamo avviati in quella direzione. Ha raccolto l'asciugamani ma non l'ha usato per coprirsi. Sembrava... ecco, era meravigliosa, con le gocce d'acqua che brillavano sulla pelle e quel medaglione fra i seni. Lo so, sembrerà ridicolo e banale, ma era come una dea nata dal mare. Non ha badato a me, ha guardato Gledhill e ha detto: "Che piacere vederti, Toby. Perchè non vieni al cottage a mangiare qualcosa?". Un invito assolutamente normale; parole che sembravano innocue, ma non lo erano.
«Non credo che Gledhill potesse resisterle. Al suo posto non credo che ci sarei riuscito, almeno non in quel momento. Sapevo esattamente cosa stava facendo, e lo sapeva anche lei: gli chiedeva di scegliere. Dalla mia parte non c'erano che guai, un lavoro perduto, dispiaceri, forse la vergogna; e dalla sua la sicurezza, il successo professionale, il rispetto dei colleghi... e l'amore. Credo che gli stesse offrendo l'amore. Sapevo cosa sarebbe successo nel cottage se Toby Gledhill fosse andato con lei; e lo sapeva anche Gledhill. Non mi ha neppure salutato. Hilary Robarts si è buttata addosso l'asciugamani e ci ha voltato le spalle, come se fosse assolutamente certa che lui l'avrebbe seguita. E infatti l'ha seguita. Due giorni dopo, venerdì dodici agosto, si è ucciso. Non so cosa gli avesse detto lei - ormai non lo saprà più nessuno - ma dopo quell'incontro credo che lui non ce la facesse più. Non si trattava delle minacce di Hilary Robarts, ammesso che l'abbia minacciato. Però se non ci fosse stato quell'incontro sulla spiaggia, credo che sarebbe ancora vivo. È stata lei a ucciderlo.»
«E tutto questo non è emerso durante l'inchiesta?» domandò Dalgliesh.
«No, non ce n'era motivo. Non sono stato chiamato a testimoniare. Tutto si è svolto in maniera molto discreta. Alex Mair voleva evitare ogni pubblicità. Come forse avrà notato, non ce n'è quasi mai quando succede qualcosa di spiacevole in una centrale nucleare, sono diventati tutti abilissimi nell'insabbiare gli incidenti.»
«E perché è venuto a raccontarlo a me?»
«Voglio essere sicuro che sia necessario dirlo a Rickards; ma probabilmente glielo sto raccontando anche perché ho bisogno di confidarmi con qualcuno. Non so bene perché ho scelto proprio lei... Mi scusi.»
Una risposta sincera, anche se poco cortese, sarebbe stata: "Ha scelto me nella speranza che io lo riferisca a Rickards e la sollevi da questa responsabilità". Invece Dalgliesh disse: «Si rende conto, ovviamente, che l'ispettore capo Rickards deve essere messo al corrente di queste informazioni».
«Ne è certo? Sa, vorrei esserne sicuro. Immagino che sia la solita paura di chi si trova ad aver a che fare con la polizia, Che uso ne faranno? Si metteranno in testa un'idea sbagliata? La mia testimonianza potrebbe contribuire a indiziare un innocente? Immagino che lei abbia fiducia nell'integrità della polizia, altrimenti non continuerebbe a fare il suo mestiere, ma noi profani sappiamo che le cose possono andar male, che gli innocenti possono venire perseguitati e i colpevoli lasciati liberi; che non sempre la polizia è scrupolosa come afferma di essere. Non le sto chiedendo di riferire all'ispettore Rickards quello che le ho raccontato: non sono un bambino. Ma per la verità non vedo che attinenza abbia questo episodio con il caso. I protagonisti sono tutti e due morti. Non capisco come sapere di quell'incontro possa aiutare Rickards a catturare l'assassino della signorina Robarts. E comunque non servirà a riportare in vita né l'uno né l'altra.»
Dalgliesh gli riempì di nuovo la tazza, poi disse: «Invece ha attinenza. Lei mi ha lasciato intendere che Hilary Robarts potrebbe aver ricattato Gledhill per costringerlo a non abbandonare il lavoro. E se ricattava lui, poteva ricattare anche qualcun altro. Tutto ciò che riguarda la signorina Robarts potrebbe avere un legame con la sua morte. Non si preoccupi troppo per gli innocenti sospettati. Non che gli innocenti non ci vadano mai di mezzo in un'indagine di omicidio: succede. Nessuno che abbia sia pur lontanamente a che fare con un assassinio ne esce indenne; ma l'ispettore capo Rickards non è uno sciocco ed è un uomo onesto. Si servirà unicamente degli elementi che hanno attinenza con l'indagine, e spetta a lui decidere quali sono».
«È quello che volevo sentire. D'accordo, gli parlerò.»
Pascoe finì in fretta il suo caffè, come se non vedesse l'ora di andarsene. Con un ultimo frettoloso saluto inforcò la bicicletta e prese a pedalare furiosamente giù per il sentiero, piegandosi per non opporre resistenza al vento. Dalgliesh riportò le tazze in cucina, assorto nei suoi pensieri. La descrizione di Hilary Robarts che usciva dalle onde come una dea risplendente era molto vivida, ma c'era un dettaglio sbagliato: Pascoe aveva parlato del medaglione che spiccava fra i suoi seni. Dalgliesh ricordava le parole che Alex Mair aveva pronunciato guardando il cadavere: «Quel medaglione che ha al collo... gliel'ho regalato io il ventinove agosto, per il suo compleanno». Mercoledì dieci agosto Hilary Robarts non poteva averlo addosso. Senza dubbio Pascoe aveva visto Hilary che usciva dal mare con il medaglione tra i seni nudi, ma non poteva essere stato il dieci agosto.
LIBRO VI
Da sabato 1° ottobre
a giovedì 6 ottobre
42
Jonathan decise di aspettare il sabato per andare a Londra a continuare le sue indagini. Era meno probabile che sua madre si insospettisse se fosse partito di sabato per visitare il Museo delle Scienze; ogni volta che si prendeva un giorno di permesso lo sommergeva di domande: voleva sapere dove andava, perché... Prima di dirigersi in Pont Street ritenne prudente passare una mezz'ora al museo, così erano le tre del pomeriggio quando arrivò davanti all'edificio che cercava. Fin dalla prima occhiata una cosa gli fu chiara: una che abitava lì e aveva una governante non poteva essere povera. La casa faceva parte di un imponente complesso vittoriano; era per metà di pietra e per metà di mattoni, con le colonne ai lati della lucida porta nera e vetri lavorati alle finestre del piano terreno. Il portone era aperto e lasciava intravedere un atrio quadrato con il pavimento di marmo bianco e nero, una scalinata con la balaustrata di ferro battuto e la porta dorata di un ascensore. Sulla destra c'era un gabbiotto in cui stava il portiere in uniforme. Jonathan affrettò il passo per non essere sorpreso a curiosare e prese a meditare su quale sarebbe stata la prossima mossa.
In un certo senso non doveva far altro che arrivare alla più vicina stazione della metropolitana, tornare in Liverpool Street e salire sul primo treno per Norwich. Aveva raggiunto lo scopo che si era prefisso, ora sapeva che Caroline gli aveva mentito. Si disse che avrebbe dovuto provare dolore e indignazione per quella menzogna, ma anche per lo stratagemma che aveva usato per scoprirla. Aveva creduto di essere innamorato di Caroline; era innamorato di lei. Nell'ultimo anno non c'era stata ora in cui Caroline non fosse stata presente nei suoi pensieri. Quella bellezza bionda, remota ed efficiente l'aveva ossessionato. Come uno studentello si era appostato agli angoli dei corridoi per vederla passare, si era rifugiato nel proprio letto per abbandonarsi indisturbato alle più segrete fantasie erotiche e si era svegliato domandandosi dove e come si sarebbero incontrati di nuovo. Di certo l'atto fisico del possesso e la scoperta di quell'imbroglio non potevano distruggere il suo amore. E allora, perché la conferma dell'inganno gli risultava quasi gradita, e persino piacevole? Avrebbe dovuto sentirsi disperato, invece provava una soddisfazione molto simile al trionfo. Caroline aveva mentito quasi con noncuranza, sicura che lui fosse troppo innamorato, troppo asservito, persino troppo stupido per dubitare. Ma ora che aveva scoperto la verità, l'equilibrio di potere tra loro era sottilmente cambiato. Non sapeva ancora con precisione come avrebbe utilizzato quello che sapeva. Aveva trovato la forza di agire, ma trovare il coraggio di rinfacciarle la scoperta che aveva fatto era un altro paio di maniche.
Arrivò di buon passo in fondo a Pont Street, senza staccare lo sguardo dal marciapiede; poi tornò indietro cercando di riordinare le emozioni che si agitavano in lui, aggrovigliate nella lotta per il sopravvento: sollievo, rammarico, disgusto, trionfo. Era stato tutto così facile! Era riuscito a superare ogni ostacolo che aveva temuto, dal contatto con l'agenzia investigativa alla scusa per quella puntata a Londra, con una semplicità che non si sarebbe mai aspettato. E allora, perché non arrischiarsi a fare un altro passo? Perché non cercare la conferma assoluta? Conosceva il nome della governante, la signorina Beasley. Poteva chiedere di vederla, raccontarle che aveva conosciuto Caroline un paio d'anni prima, magari a Parigi, ma che aveva perso l'indirizzo e adesso desiderava mettersi di nuovo in contatto con lei. Se si fosse preparato una storia molto semplice e avesse resistito alla tentazione di ricamarci sopra, non ci sarebbero stati rischi. Sapeva che Caroline era stata in Francia durante le vacanze nel 1986, l'anno in cui c'era andato anche lui. Era una delle coincidenze che erano emerse nei loro primi appuntamenti, mentre chiacchieravano innocentemente di viaggi e di pittura nel tentativo di trovare un terreno comune, un comune interesse. Bene, almeno a Parigi c'era stato davvero. E aveva visto il Louvre. Poteva dire che si erano conosciuti lì.
Certo, avrebbe dovuto dare un nome falso. Quello di suo padre sarebbe andato bene: Percival. Charles Percival. Era meglio scegliere qualcosa di un po' insolito; un nome troppo comune sarebbe sembrato fasullo. Avrebbe detto che viveva a Nottingham, ci aveva fatto l'università e la conosceva. Riuscire a immaginare quelle vie che ricordava bene rendeva credibile la sua fantasia. Aveva bisogno di radicare le menzogne a una parvenza di verità. Poteva dire che lavorava all'ospedale di Nottingham, che era un tecnico di laboratorio, così se ci fossero state altre domande sarebbe stato in grado di pararle. Ma perché poi avrebbero dovuto essercene?
Si impose di entrare nell'atrio con fare sicuro. Appena un giorno prima gli sarebbe stato difficile affrontare lo sguardo del portiere, ma ora, incoraggiato dal successo, riuscì a dire: «Vado dalla signorina Beasley, all'interno tre. Sono un amico della signorina Caroline Amphlett».
Il portiere lasciò il banco e andò nell'ufficio a telefonare. Jonathan pensò che niente gli impediva di salire direttamente e andare a bussare alla porta, ma subito si rese conto che il portiere avrebbe avvertito la signorina Beasley che non gli aprisse. Era un sistema di sicurezza, anche se non proprio rigoroso.
Un attimo dopo il portiere tornò nel gabbiotto: «Va bene, signore: può salire. È al primo piano».
Jonathan non si fermò ad aspettare l'ascensore. La porta di mogano a due battenti con il numero di ottone lucido, le due serrature di sicurezza e lo spioncino centrale, si trovava sul lato anteriore della casa. Si lisciò i capelli, poi suonò il campanello fissando lo spioncino con aria sicura di sé. Dall'interno non gli giunse alcun suono e la porta massiccia parve trasformarsi in una barricata minacciosa, che solo uno sciocco presuntuoso poteva tentare di superare. Immaginò l'occhio che lo scrutava attraverso lo spioncino e per un secondo dovette lottare contro l'impulso di fuggire. Ma poi sentì il tintinnio di una catena, il cigolio della serratura che girava, e la porta si aprì.
Da quando aveva deciso di far visita all'appartamento era stato troppo occupato a inventare un pretesto per pensare alla signorina Beasley. La parola "governante" aveva evocato in lui l'immagine di una donna di mezza età, vestita sobriamente, nel peggiore dei casi un po' scostante, nel migliore deferente, ciarliera e servizievole. Ma la realtà era così strana che Jonathan trasalì per la sorpresa e subito arrossì per essersi tradito. La signorina Beasley era una donna piccola e magrissima, con i lisci capelli biondi - chiaramente tinti date le radici bianche - che le scendevano sulle spalle in un caschetto lucente. Gli occhi di un verde pallido erano immensi e sporgenti, con le palpebre inferiori così arrossate che i bulbi bianchi sembravano galleggiare su una ferita aperta. La pelle era pallidissima e segnata dalle rughe, tranne sugli zigomi sporgenti, dove era tesa e sottile come carta velina. In contrasto con quel pallore la bocca era uno squarcio rosso acceso. La governante portava un paio di pantofole a tacco alto e un kimono, e teneva in braccio un cagnolino senza pelo, con gli occhi sporgenti e il collo sottile cinto da un collare gemmato. Per qualche secondo la donna restò a guardarlo in silenzio, con la guancia appoggiata al muso del cane.
La sicurezza di Jonathan svanì rapidamente. «Scusi il disturbo. Sono un amico della signorina Caroline Amphlett e sto cercando di rintracciarla.»
«Be', qui non la troverà.» La voce, che Jonathan riconobbe, era inaspettata in una donna dall'aspetto così fragile: era profonda e rauca, per niente priva di fascino.
«Se ho sbagliato indirizzo mi dispiace. Vede, Caroline me l'aveva dato due anni fa, ma l'ho perso e così ho provato a cercarlo sull'elenco telefonico.»
«Non ho detto che ha sbagliato indirizzo, solo che qui non la troverà. Però, dato che lei sembra innocuo e non è armato, è meglio che entri. La prudenza non è mai troppa di questi tempi, ma Baggot è un tipo fidato: pochi impostori riescono a fargliela. Lei è un impostore, signor...?»
«Percival. Charles Percival.»
«Scusi il mio abbigliamento, signor Percival, ma di solito non ricevo visite nel pomeriggio.»
Jonathan la seguì attraverso l'anticamera quadrata ed entrò nel salotto. Lei gli indicò imperiosamente un divano di fronte al camino. Era troppo basso, e soffice come un letto, con i bordi ornati di cordoni e nappe. La signorina Beasley si muoveva lentamente, come se cercasse di prendere tempo: si sedette di fronte a lui e lo fissò senza sorridere, con l'intensità di un inquisitore. Jonathan sapeva che doveva apparirle maldestro e sgraziato, affondato tra i cuscini morbidi, con le ginocchia aguzze che quasi gli toccavano il mento. Il cane, nudo come se l'avessero scuoiato, e scosso da un tremito continuo, quasi patisse il freddo, girò gli occhi imploranti prima verso di lui, poi verso la donna. Il collare di cuoio, appesantito dalle grosse pietre rosse e blu, gli penzolava dall'esile collo.
Jonathan resistette alla tentazione di voltarsi per guardare la stanza, ma gli sembrava di aver già memorizzato ogni particolare: il camino di marmo sovrastato dal ritratto a figura intera di un ufficiale vittoriano, una faccia pallida e arrogante con una ciocca di capelli biondi che spioveva sulla guancia, e un'inquietante rassomiglianza con Caroline; le quattro sedie intagliate con i sedili ricamati, appoggiate alla parete; il pavimento chiaro e lucido, le pieghe dei tappeti; il tavolo rotondo al centro della stanza e i tavolini con le foto nelle cornici d'argento. C'era un odore intenso di vernici e solvente, come se stessero ridipingendo una stanza dell'appartamento.
Dopo un momento di silenzio la governante riprese: «Dunque lei è un amico di Caroline. Mi sorprende, signor... signor... Purtroppo ho dimenticato il suo nome».
«Percival» rispose Jonathan in tono piuttosto fermo. «Charles Percival.»
«Io sono Oriole Beasley, la governante. Come le stavo dicendo, lei mi sorprende, signor Percival. Ma se dice di essere amico di Caroline, naturalmente le credo sulla parola.»
«Forse amico non è il termine esatto. Ci siamo visti una volta sola, a Parigi nel 1986. Abbiamo visitato il Louvre insieme. Però mi piacerebbe rivederla. Mi aveva dato il suo indirizzo, ma l'ho perso.»
«Che distratto! E così ha aspettato due anni, poi ha deciso di cercarla. Perché proprio ora, signor Percival? Dopo essere riuscito a tenere a freno la sua impazienza per due anni...»
Jonathan sapeva che impressione le stava dando: incerto, timido, a disagio. Del resto era proprio quello che lei si sarebbe aspettata da un tipo tanto maldestro da credere di poter riaccendere la passione di un giorno. «Vede, starò a Londra per qualche giorno. Lavoro a Nottingham, sono un tecnico dell'ospedale. Non mi capita spesso di venire fin qui, e così ho provato l'impulso di rintracciare Caroline.»
«Come vede non è qui. Per la verità non vive in questa casa da quando aveva diciassette anni; e dato che sono soltanto la governante non è compito mio dare informazioni ai curiosi sul luogo di residenza dei membri della famiglia. Lei si definirebbe un curioso, signor Percival?»
«So che potrei sembrarlo» rispose Jonathan. «Ma ho trovato il nome sull'elenco e ho pensato che valesse la pena di tentare. Naturalmente può darsi che Caroline non abbia intenzione di rivedermi.»
«Lo ritengo più che probabile. Certo lei avrà qualche documento di identificazione, qualcosa che confermi che lei è davvero il signor Charles Percival di Nottingham...»
«Purtroppo no» disse Jonathan. «Non pensavo che...»
«Neppure una carta di credito o la patente? Mi sembra che sia venuto stranamente impreparato, signor Percival.»
Qualcosa nella voce profonda, arrogante e aristocratica, un miscuglio di insolenza e disprezzo, gli provocò una reazione di sfida. «Non sono dell'azienda del gas! Non vedo per che motivo dovrei provarle la mia identità. È stato un semplice tentativo, speravo di vedere Caroline, o forse la signora Amphlett. Mi scusi se l'ho offesa.»
«Non mi ha affatto offesa. Se mi offendessi così facilmente non lavorerei per la signora Amphlett. Ma non può vedere neppure lei: la signora va sempre in Italia alla fine di settembre, e da lì raggiunge la Spagna, dove passa l'inverno. Mi stupisco che Caroline non gliel'abbia detto. In assenza della signora Amphlett io bado all'appartamento. Lei detesta la malinconia dell'autunno e il rigore dell'inverno. Una signora ricca come lei non è obbligata a sopportare niente di tutto questo, sono sicura che se ne rende conto, signor Percival.»
Ecco finalmente l'appiglio che Jonathan aspettava. Si impose di fissare quegli orribili occhi arrossati e disse: «Se non ricordo male, Caroline mi aveva detto che sua madre era povera; per quanto ne so aveva perso tutto il suo denaro in un investimento nella società di Peter Robarts».
L'effetto di quelle parole fu straordinario: la signorina Beasley avvampò e il rossore le dilagò dal collo alla fronte. Ci volle qualche istante prima che trovasse la forza di parlare, ma quando lo fece la sua voce era perfettamente sotto controllo.
«Forse lei ha volutamente frainteso, signor Percival; oppure la sua memoria è tanto inaffidabile per le questioni finanziarie quanto lo è per gli indirizzi. Caroline non può averle raccontato niente di simile: all'età di ventun'anni sua madre ha ereditato un cospicuo patrimonio dal nonno, e non ne ha mai perso un penny. Casomai le interessasse, fu il mio piccolo capitale, diecimila sterline, a essere imprudentemente investito nelle attività di quell'imbroglione. Ma Caroline non avrebbe confidato a un estraneo una mia piccola tragedia personale.»
Jonathan non sapeva cosa dire; era impossibile trovare una giustificazione plausibile. Aveva la prova che cercava: Caroline gli aveva mentito. Avrebbe dovuto provare un senso di trionfo perché i suoi sospetti erano fondati e la sua impresa era stata coronata dal successo. Invece si sentì travolgere da una momentanea ma profondissima depressione, accompagnata da una convinzione spaventosa e irrazionale: stava pagando a caro prezzo la prova della perfidia di Caroline.
Sulla stanza scese il silenzio, mentre la governante continuava a fissarlo. All'improvviso gli chiese: «Cosa pensa di Caroline? Deve averla colpita, altrimenti non le sarebbe venuta voglia di rivederla. Evidentemente non l'ha dimenticata in questi due anni».
«Penso... l'avevo trovata molto carina.»
«Sì, è vero Sono contenta che la pensi così. Ero la sua bambinaia e si può dire che l'abbia tirata su io. La sorprende? Non corrispondo alla tipica immagine della balia: un seno caldo, un grembiule, le favole, le preghiere prima di andare a dormire, mangia anche la crosta del pane o non ti verranno i capelli ricci. Ma avevo i miei metodi. La signora Amphlett accompagnava il generale suo marito all'estero, e noi due restavamo qui, da sole. La signora Amphlett era convinta che la bambina avesse bisogno di stabilità, a patto che non toccasse a lei assicurargliela. Naturalmente se Caroline fosse stata un maschio le cose sarebbero andate diversamente. Gli Amphlett non hanno mai dato molta importanza alle figlie femmine. Caroline aveva un fratello che morì a quindici anni in un incidente d'auto, sulla macchina di un amico. Sulla macchina c'era anche Caroline, che se la cavò solo con qualche graffio. Credo che i suoi genitori non gliel'abbiano mai perdonato. Ogni volta che la guardavano gli si leggeva negli occhi che avrebbero preferito che fosse morta lei al posto del fratello.»
Non voglio sentire questa storia, pensò Jonathan, non voglio ascoltare. «Non mi aveva detto di avere un fratello; però mi aveva parlato di lei.»
«Davvero? Le ha parlato di me? Adesso mi sorprende veramente signor Percival. Mi scusi, ma lei è proprio l'ultima persona a cui avrei immaginato che Caroline potesse parlare di me.»
L'ha capito, pensò Jonathan. Non tutta la verità, ma sa che non sono Charles Percival di Nottingham. E mentre sosteneva lo sguardo di quegli strani occhi in cui affiorava inconfondibile un miscuglio di sospetto e disprezzo, gli parve che la signorina Beasley e Caroline fossero alleate in una congiura femminile di cui lui era stato fin dall'inizio una vittima sfortunata e insignificante. Quella certezza alimentò la sua collera e lo fece sentire forte, ma nonostante tutto, Jonathan tacque.
Dopo un momento la signorina Beasley riprese: «La signora Amphlett mi ha tenuto con lei anche dopo che Caroline se n'è andata di casa, e anche dopo la dipartita del generale. Ma "dipartita" non è un eufemismo appropriato per un militare. Forse dovrei dire che è stato chiamato a un più alto servizio, promosso alla gloria. O forse è una cosa che si dice soltanto nell'Esercito della Salvezza? Ho l'impressione che soltanto i membri dell'Esercito della Salvezza siano promossi alla gloria.»
«In effetti Caroline mi aveva detto che suo padre era militare» disse Jonathan.
«Caroline è sempre stata una ragazza riservata, ma a quanto sembra lei aveva conquistato la sua fiducia, signor Percival. E così adesso faccio la governante invece della bambinaia. La signora Amphlett trova il modo di tenermi occupata anche quando non c'è. Io e Maxie non possiamo stare qui tranquilli a goderci Londra, vero Maxie? Niente affatto. Un po' di cucito, la corrispondenza, i conti da pagare, i gioielli da portare a far pulire, l'appartamento da far ridipingere... La signora Amphlett detesta l'odore delle vernici. E naturalmente Maxie deve fare le sue passeggiate giornaliere. In una pensione per cani non si troverebbe bene, vero tesoro mio? Chissà cosa sarà di me quando Maxie verrà promosso alla gloria.»
Jonathan non sapeva cosa rispondere e del resto non sembrava che la signorina Beasley si aspettasse una risposta. Dopo un attimo di silenzio, in cui si accarezzò la faccia con una zampa del cagnetto, disse: «Tutto a un tratto i vecchi amici di Caroline sono diventati ansiosi di mettersi in contatto con lei. Qualcuno ha telefonato martedì scorso... o è stato mercoledì? Per caso era lei, signor Percival?».
«No» disse Jonathan sorprendendosi della facilità con cui aveva mentito. «No, non ho telefonato; ho pensato di venire personalmente.»
«Però sapeva di chi chiedere, conosceva il mio nome. L'ha detto a Baggott.»
Jonathan era deciso a non lasciarsi cogliere di sorpresa. «Lo ricordavo. Come le dicevo, Caroline mi ha parlato di lei.»
«Avrebbe fatto meglio a telefonare prima di venire. Le avrei spiegato che Caroline non abita qui e le avrei fatto risparmiare tempo. Strano che non ci abbia pensato. Ma l'altro amico non parlava come lei, aveva una voce diversa. Un accento scozzese, mi pare. Mi scusi se glielo dico, signor Percival, ma la sua voce non ha né carattere né distinzione.»
«Adesso è meglio che vada» la interruppe Jonathan, «se non pensa di potermi dare l'indirizzo di Caroline... Mi scusi se sono venuto in un momento poco opportuno.»
«Perché non le scrive una lettera, signor Percival? Le do io la carta. Non penso che sia corretto darle l'indirizzo di Caroline, ma tuttavia stia certo che le farò avere la sua lettera se me l'affida.»
«Allora non vive a Londra?»
«No, non sta a Londra da più di tre anni, e non abita più qui da quando ne aveva diciassette. Ma so dov'è, ci teniamo in contatto. Può darmi una lettera.»
È una trappola, pensò Jonathan, ma non può costringermi a scrivere. Non devo lasciare bianco su nero, Caroline riconoscerebbe la scrittura anche se cercassi di contraffarla. «Le scriverò più tardi, quando avrò pensato che cosa dire. Se spedisco la lettera a questo indirizzo, ci penserà lei a farla avere a Caroline?»
«Con piacere, signor Percival. E ora immagino che vorrà andare. La sua visita sarà stata meno produttiva di quanto sperava, tuttavia credo che abbia ottenuto le informazioni che cercava.»
Ma la signorina Beasley non si mosse. Per un momento Jonathan si sentì in trappola, immobilizzato come se quei cuscini troppo soffici lo trattenessero. Si aspettava quasi che la governante si alzasse di scatto a sbarrargli la strada, lo accusasse di essere un impostore e lo tenesse chiuso nell'appartamento mentre telefonava alla polizia o al portiere. E allora, cosa avrebbe fatto? Avrebbe cercato di strapparle le chiavi e di fuggire? Avrebbe atteso la polizia cercando di cavarsela con un bluff? Ma in un attimo quell'attacco di panico si placò. La signorina Beasley si alzò, lo accompagnò alla porta e la tenne aperta senza dire una parola. Non la chiuse nemmeno quando lui fu uscito, anzi Jonathan si accorse che era rimasta immobile, con il cagnetto tremante tra le braccia. Tutti e due volevano vederlo andare via. Arrivato sulla scala si voltò per sorriderle. Quello che vide lo fece restare paralizzato per un momento prima di imboccare precipitosamente la scalinata. In tutta la sua vita non aveva mai visto una simile espressione di odio su un volto umano.
43
Quell'impresa gli aveva causato un livello di tensione che Jonathan non credeva possibile, tanto che quando arrivò in Liverpool Street si sentiva sfinito. C'erano dei lavori in corso alla stazione - per migliorarla, come proclamavano i grandi cartelli pensati apposta per rassicurare e incoraggiare il pubblico - ma per il momento il tutto si era trasformato in uno sconcertante e rumoroso labirinto di passerelle provvisorie in cui era difficile trovare i treni, nonostante i cartelli indicatori. Jonathan sbagliò direzione e finì in una specie di spiazzo dal pavimento lucido; per un attimo provò il disorientamento di cui si rimane vittime in una città straniera. Quando era arrivato, quel mattino, gli era sembrato tutto più semplice, ma adesso persino la stazione contribuiva a farlo sentire sperduto, come se si fosse avventurato fisicamente ed emotivamente in territorio straniero.
Mentre il treno partiva, Jonathan chiuse gli occhi e si appoggiò alla spalliera del sedile, cercando di tirare le fila della giornata e dei sentimenti contrastanti che lo animavano. Invece si addormentò quasi subito, per risvegliarsi soltanto quando il treno fece il suo ingresso nella stazione di Norwich. Quel sonno del resto gli aveva fatto bene: pieno di energia e di ottimismo si avviò verso il parcheggio. Sapeva cosa fare: sarebbe andato immediatamente al bungalow, avrebbe messo Caroline di fronte all'evidenza e le avrebbe chiesto perché aveva mentito. Non poteva continuare a frequentarla come se nulla fosse. Erano amanti, dovevano potersi fidare l'uno dell'altra. Se c'era qualcosa che la preoccupava o la spaventava, lui sarebbe stato lì a rassicurarla e a confortarla. Sapeva che non poteva aver ucciso Hilary; anche solo pensarlo era una profanazione. D'altra parte non avrebbe mentito se non fosse stata spinta dalla paura. C'era qualcosa che non andava. L'avrebbe convinta a rivolgersi alla polizia, a spiegare il motivo per cui aveva mentito e l'aveva indotto a mentire. Sarebbero andati insieme, avrebbero confessato insieme. Non gli venne da chiedersi se Caroline sarebbe stata contenta di vederlo, e neppure se l'avrebbe trovata in casa a quell'ora del sabato. Sapeva soltanto che era una faccenda da sistemare immediatamente. La sua risoluzione gli sembrava giusta e inevitabile, e gli dava un certo senso di potere. Caroline l'aveva giudicato uno sciocco, un inetto e un credulone: bene, le avrebbe dimostrato che si sbagliava. D'ora in poi i loro rapporti sarebbero cambiati, sarebbe stato un amante più sicuro di sé e meno malleabile.
Quaranta minuti più tardi Jonathan guidava la sua macchina attraverso la campagna piatta e buia, diretto al bungalow. Non appena lo scorse sulla sinistra, rallentò. Di nuovo si trovò a pensare che era sperduto e brutto; si chiese perché mai, con tutti i paesi che c'erano più vicini a Larksoken, con le attrazioni di Norwich e della costa, Caroline avesse preso in affitto quel piccolo cubo di rozzi mattoni rossi dall'aspetto quasi sinistro. Persino quella parola, bungalow, gli sembrava ridicola: lo faceva pensare a una zona residenziale, alla comoda rispettabilità di persone anziane che non sono più in grado di fare le scale. Caroline avrebbe dovuto vivere in una torre, con vista sul mare.
Fu allora che la scorse. La Golf metallizzata sbucò veloce dal vialetto e partì accelerando verso est. Caroline portava un berretto di lana calcato sui capelli biondi, ma lui l'aveva riconosciuta subito. Si chiese se si fosse accorta di lui o della Fiesta e istintivamente frenò, lasciandola allontanare fin quasi a scomparire prima di seguirla. Mentre aspettava nel silenzio del paesaggio piatto sentì Remus che abbaiava istericamente.
Si sorprese della facilità con cui riusciva a non perderla di vista. Di tanto in tanto un'altra macchina lo superava e gli nascondeva la Golf metallizzata, e quando Caroline rallentava al semaforo di un paese doveva rallentare anche lui perché non si accorgesse di averlo dietro. Attraversarono Lydsett e Caroline svoltò a destra, verso il promontorio. Ormai Jonathan temeva che si fosse accorta di essere seguita, che l'avesse riconosciuto ma proseguiva nonostante tutto come se niente fosse. La vide superare il cancello e attese che fosse sparita oltre il dosso prima di andarle dietro, poi si fermò, spense i fari e proseguì a piedi per un tratto. La Golf rallentò e per un attimo i fari illuminarono una ragazza esile, con la testa irta di capelli biondi, quasi arancioni sulle punte. La ragazza salì a bordo e la macchina imboccò la strada costiera verso nord, svoltando poi in direzione dell'entroterra e della centrale, e infine di nuovo verso nord. Tre quarti d'ora più tardi Jonathan capì qual era la destinazione: il molo di Wells-next-the-Sea.
Parcheggiò la Fiesta accanto alla Golf e le seguì a piedi, senza staccare gli occhi dal berretto blu e bianco di Caroline. Camminavano in fretta, in silenzio, e non si voltavano indietro. Arrivati sul molo le perse di vista per un attimo, poi le vide salire su una barca. Era il suo momento: doveva parlare a Caroline. Affrettò il passo e quando giunse sul molo, le due ragazze erano già a bordo. Era una barca piccola, non più di cinque metri, con una bassa cabina centrale e il motore fuoribordo. Quando Jonathan si avvicinò, Caroline si voltò dal pozzetto: «Cosa diavolo ci fai qui?».
«Devo parlarti. Ti ho seguita da quando hai lasciato il bungalow.»
«Lo so, sei uno stupido. Ti ho tenuto d'occhio dallo specchietto retrovisore per tutta la strada, e se avessi voluto seminarti non mi sarebbe stato difficile. Devi piantarla con queste scene da film, non sei il tipo.»
Non c'era collera nella sua voce, solo stanchezza e irritazione. «Caroline» ripeté lui, «ti devo parlare.»
«Aspetta fino a domani. Oppura resta qui, se proprio ci tieni: torneremo tra un'ora.»
«Ma dove vai? Cosa stai facendo?»
«Cristo, cosa credi che faccia? Questa è una barca, la mia barca, e sto uscendo in mare. Io e Amy vogliamo fare un breve giro.»
Amy, pensò Jonathan, Amy chi? Ma Caroline non fece le presentazioni. «È tardi» insistette lui fiaccamente. «È buio e sta salendo la nebbia.»
«È buio e c'è la nebbia. Siamo in ottobre. Senti, Jonathan, perché non ti fai gli affari tuoi e non te ne torni a casa dalla mamma?»
Caroline non aveva smesso di darsi da fare nel pozzetto. Jonathan si sporse, afferrò il bordo della barca e sentì il dondolio dolce della marea. «Caroline, ti prego! Non andartene... Ti amo.»
«Ne dubito.»
Sembrava che tutti e due avessero dimenticato Amy. «So che hai mentito» disse Jonathan in tono disperato. «Tua madre non è stata rovinata dal padre di Hilary. Non era vero niente. Senti: se sei nei guai, io voglio aiutarti. Dobbiamo parlarne. Non posso andare avanti così.»
«Non sono nei guai e se anche lo fossi tu saresti l'ultimo a cui mi rivolgerei. E metti giù le mani dalla mia barca.»
«La tua barca?» le fece eco Jonathan, come se quella fosse stata la cosa più importante. «Non mi avevi detto che avevi una barca.»
«Ci sono tante di quelle cose che non ti ho detto...»
Di colpo Jonathan comprese. Non c'era più ombra di dubbio. «Allora non è vero niente? Non mi ami, non mi hai mai amato.»
«Amore, amore, amore! Smettila di belare, Jonathan. Torna a casa e guardati allo specchio, ma guardati bene. Come hai potuto credere che fosse vero? È vero quello che c'è tra me e Amy. È per lei che resto a Larksoken, e lei ci resta per me. Adesso lo sai.»
«Ti sei servita di me.»
Jonathan si rendeva conto di parlare come un bambino piagnucoloso.
«Sì, mi sono servita di te e tu ti sei servito di me. Il sesso è così. E se proprio vuoi saperlo, mi ha dato la nausea.»
Nonostante il dolore e l'umiliazione Jonathan intuiva in Caroline un'urgenza che non aveva nulla a che fare con lui. La crudeltà era voluta, ma priva di passione: fosse stata ispirata dalla passione, l'avrebbe trovata molto più sopportabile. La sua presenza era soltanto un fastidio trascurabile fra altre preoccupazioni ben più gravi. La cima s'era sciolta dalla bitta, Caroline aveva acceso il motore e la barca si stava staccando dal molo. Per la prima volta Jonathan guardò l'altra ragazza: non aveva aperto bocca da quando lui era arrivato. Sedeva accanto a Caroline nel pozzetto, senza sorridere; era scossa da leggeri brividi e aveva un'aria vulnerabile. Prima che le lacrime cominciassero a offuscargli la vista, a Jonathan parve di scorgere su quel viso di bambina un'espressione carica di sconcertata compassione. Poi la barca con a bordo le due donne diventò una macchia amorfa. Attese fino a che furono quasi scomparse sull'acqua scura, quindi prese un'altra decisione: avrebbe cercato un pub dove bere una birra e mangiare qualcosa aspettando il loro ritorno. Non sarebbero state via a lungo, altrimenti avrebbero perso la marea. E lui doveva sapere la verità; non poteva passare un'altra notte nel dubbio. Restò sul molo a guardare il mare, come se la barca fosse ancora visibile. Poi si girò e con passo strascicato si diresse verso il pub più vicino.
44
Il rombo del motore, innaturale nella sua violenza, squarciò l'aria tranquilla. Amy si aspettava quasi di vedere le porte delle case che si aprivano e la gente che arrivava di corsa sul molo per protestare. Caroline fece un movimento e il rumore si smorzò in un borbottio, mentre la barca cominciava ad allontanarsi dalla banchina. «Chi è?» chiese Amy irritata. «Chi è quell'imbecille?»
«Uno di Larksoken. Si chiama Jonathan Reeves, ma non ha nessuna importanza.»
«Perché gli hai mentito? Non siamo amanti.»
«Perché era necessario. Comunque non è il caso di prendersela, non ha nessuna importanza.»
«Ne ha per me. Guardami, Caroline, ti sto parlando.»
Ma Caroline non la guardò «Aspetta che siamo uscite dal porto» rispose con calma. «C'è qualcosa che devo dirti, ma prima voglio arrivare al largo, e devo concentrarmi. Vai a prua e stai di guardia.»
Per un momento Amy rimase indecisa sul da farsi, poi obbedì. Avanzò cautamente lungo il ponte, aggrappandosi al tetto basso della cabina. Non le piaceva il potere che Caroline esercitava su di lei; non aveva niente a che fare con il denaro che veniva versato, anonimamente e a intervalli irregolari, sul suo conto postale o che trovava tra le rovine dell'abbazia. Non era neppure l'eccitazione e il segreto senso di forza che l'essere parte di una cospirazione le dava. Forse, dopo quel primo incontro nel pub di Islington che aveva portato al suo reclutamente nell'Operazione Birdcall, si era inconsciamente riproposta di essere leale e obbediente, e adesso che era giunto il momento della prova non riusciva a liberarsi di quel tacito impegno.
I Si voltò e vide che le luci del porto andavano facendosi sempre più fioche. Le finestre si trasformarono in minuscoli riquadri luminosi, poi in puntolini appena visibili. Il motore rombò più forte. Ritta a prua, sentì sotto di sé la potenza del Mare del Nord e il sibilo dello scafo che fendeva l'acqua. Vide le onde lisce e nere che emergevano dalla nebbia, mentre l'imbarcazione si sollevava con un fremito per poi ricadere verso il basso. Dopo una decina di minuti tornò al pozzetto. «Senti» disse, «ormai siamo lontane da terra. Cosa succede? Dovevi proprio raccontargli quella storia? So che devo stare lontana dalla gente di Larksoken, ma lo cercherò e gli dirò la verità.»
Caroline stava immobile al timone, con lo sguardo fisso davanti a sé. Nella sinistra stringeva una bussola. «Non torneremo» annunciò. «Ecco quello che dovevo spiegarti.»
Prima che Amy potesse fiatare, Caroline riprese: «Vedi di non farti venire una crisi isterica, e non discutere. Hai diritto a una spiegazione, e se stai tranquilla l'avrai. Non ho altra scelta: devi conoscere la verità, almeno in parte».
«Quale verità? Di che cosa stai parlando? E perché non dovremmo tornare indietro? Hai detto che saremmo state fuori un'oretta. Hai detto che dovevamo incontrarci al largo con dei compagni per ricevere nuove istruzioni. Ho lasciato un biglietto per avvertire Neil che non sarei stata via molto. Devo tornare da Timmy.»
Ma Caroline non la guardava. «Non torneremo perché non possiamo tornare. Quando ti ho reclutata a Londra non ti ho detto la verità. Non era nel tuo interesse e non sapevo fino a che punto potevo fidarmi di te. Del resto neanch'io conoscevo tutta la verità, sapevo solo quello che era necessario sapessi. È così che funziona. L'Operazione Birdcall non ha lo scopo di occupare Larksoken per la causa dei diritti degli animali. Gli animali non c'entrano. Non ha niente a che fare con le balene minacciate di estinzione, le foche malate, gli animali torturati nei laboratori, i cani abbandonati e tutte le altre stupidaggini che ti angosciano tanto. Si tratta di qualcosa di molto più importante: si tratta degli esseri umani e del loro futuro, del modo in cui organizzare il nostro mondo.»
Caroline parlava a voce bassa e con un'intensità straordinaria. «Non ti sento!» esclamò Amy tra il rombo del motore. «Non riesco a capire cosa stai dicendo, spegni!»
«Non ancora. Dobbiamo andare molto lontano. L'incontro è fissato in un punto preciso. Dobbiamo dirigerci verso sudest e poi orientarci con le piattaforme della centrale e il faro di Happisburgh. Spero che la nebbia non si infittisca troppo.»
«Ma perché? Chi dobbiamo incontrare?»
«Non conosco i loro nomi, e non so che ruolo abbiano nell'organizzazione. Come ti ho già spiegato, ognuno sa lo stretto indispensabile. Avevo istruzioni precise: se l'Operazione Birdcall fosse saltata dovevo telefonare a un certo numero e mettere in moto la procedura di emergenza per andarmene. È per questo che ho comprato la barca e l'ho sempre tenuta pronta. Mi hanno dato il luogo dell'appuntamento. Ci porteranno in Germania, ci procureranno documenti falsi, nuove identità, ci includeranno nell'organizzazione e ci troveranno un lavoro.»
«Ma io non voglio!» Amy la fissava inorridita. «Sono terroristi, vero? E tu sei una di loro, una maledetta terrorista!»
«E cosa sono gli agenti del capitalismo?» ribatté Caroline senza scomporsi. «Cosa sono i militari, la polizia, i tribunali? Cosa sono gli industriali, le multinazionali che opprimono tre quarti della popolazione mondiale e la tengono nella miseria? Non usare parole che non puoi capire.»
«Quella parola la capisco benissimo. E non assumere quel tono con me. Sei impazzita? Che cosa avete intenzione di fare, Cristo? Sabotare il reattore, scatenare la radioattività, causare un disastro peggiore di Chernobil, ammazzare tutti quelli che vivono sul promontorio, Timmy e Neil, Smudge e Whisky compresi?»
«Non avremmo avuto bisogno di sabotare i reattori o di scatenare la radioattività. La minaccia sarebbe stata sufficiente una volta che ci fossimo impadroniti delle centrali.»
«Le centrali? E quante? Dove?»
«Una qui, una in Francia e una in Germania. Doveva essere un'azione coordinata, e sarebbe bastata. L'importante non è quello che avremmo potuto fare, ma quello di cui la gente ci avrebbe creduti capaci. La guerra è superata e superflua. Non abbiamo bisogno di esercito, sono sufficienti pochi compagni ben addestrati, intelligenti e pronti a sacrificarsi. Quello che tu chiami terrorismo è una forza che può cambiare il mondo, ed è più efficiente di quell'industria della morte in cui aveva fatto carriera mio padre. Una cosa in comune però ce l'abbiamo: un soldato deve essere pronto a morire per la causa, e anche noi lo siamo.»
«Non è possibile!» gridò Amy. «I governi vi fermeranno.»
«Il meccanismo è già in moto e nessuno può fermarci. Non sono abbastanza uniti e non ne hanno la volontà. E questo è solo l'inizio.»
Amy la guardò e disse: «Ferma la barca. Io torno a terra».
«E come? A nuoto? Annegheresti o moriresti assiderata. Con questa nebbia...»
Non ci aveva fatto caso, ma la nebbia si era addensata. Un momento prima le era sembrato di poter scorgere in lontananza le luci sulla spiaggia, simili a stelle, di vedere le onde nere che sciabordavano contro lo scafo, di poter scrutare nel buio, ma ora tutto era avvolto in una nebbia umida e inesorabile. «Oh Dio! Portami indietro!» gridò. «Devi farmi scendere. Fammi scendere: voglio Timmy! Voglio Neil!»
«Non posso, Amy. Sta a sentire, se non vuoi partecipare dillo quando arriverà la barca. Ti faranno scendere a riva in qualche posto. Non sarà su questa costa, ma da qualche altra parte. Non sappiamo cosa farcene di una recluta riluttante. Sarebbe soltanto una preoccupazione, come doverti cercare una nuova identità. Ma se non volevi entrarci, se non volevi comprometterti, perché hai ucciso la Robarts? Pensavi davvero che volessimo un'inchiesta per omicidio incentrata su Larksoken, con l'attenzione della polizia, Rickards sul posto, il passato di tutti gli individui sospetti esaminato con la lente di ingrandimento? E se Rickards ti avesse arrestata, come potevo sapere che non avresti ceduto, che non avresti detto niente dell'Operazione Birdcall e non ti saresti messa a collaborare con la loro giustizia?»
«Sei pazza!» esclamò Amy. «Sono su questa barca con una maledetta pazza. Non ho ucciso la Robarts.»
«E chi è stato allora? Pascoe? È altrettanto pericoloso.»
«Come poteva? Stava tornando da Norwich. Abbiamo mentito a Rickards sull'ora, ma Neil è tornato alla roulotte prima delle nove e un quarto, e siamo rimasti insieme tutta la sera, con Timmy. E quei dettagli sul Fischiatore che faceva l'incisione sulla fronte delle vittime e tagliava loro i peli... non ne sapevamo niente. Io credevo che l'avessi uccisa tu.»
«Perché avrei dovuto?»
«Perché lei aveva scoperto l'Operazione Birdcall. Non è per questo che stai scappando? Perché non hai altra scelta?»
«È vero, non ho altra scelta. Ma non a causa della Robarts. Non aveva scoperto niente. Come poteva? Qualcun altro però sa. Non si tratta soltanto dell'assassinio di Hilary Robarts. I servizi di sicurezza hanno cominciato a informarsi sul mio conto. Devono aver trovato una pista, probabilmente da una delle cellule tedesche o da un infiltrato nell'IRA.»
«Come fai a saperlo? Può darsi che tu stia scappando senza motivo.»
«Ci sono troppe coincidenze. L'ultima cartolina che avevi nascosto tra le rovine dell'abbazia... te l'ho detto, era stata rimessa a posto nel modo sbagliato. Sono sicura che qualcuno deve averla letta.»
«Chiunque potrebbe averla trovata. E il messaggio non significava nulla, almeno per me.»
«E chi vuoi che possa averla trovata per caso a settembre inoltrato, quando ormai la stagione delle scampagnate è finita? E se anche fosse andata così, credi che l'avrebbero rimessa a posto? E non è tutto: sono andati a casa di mia madre. La governante, che è stata la mia bambinaia, mi ha telefonato oggi per avvertirmi. Non ho più potuto aspettare e ho inviato il segnale per far scattare il piano di emergenza.»
A tribordo le rare luci che brillavano sulla riva erano velate dalla nebbia, ma ancora visibili. Il rombo del motore si era fatto meno ossessivo, quasi amichevole. O forse, pensò Amy, era lei che ci si era abituata. Le sembrava impossibile trovarsi là fuori al buio, con la voce di Caroline che raccontava cose incredibili, parlava di terrorismo, fughe e tradimenti con tanta calma, come se discutesse il programma di una gita. Doveva saperne di più. Si sorprese a chiedere: «Dove li hai conosciuti, quelli per cui lavori?».
«In Germania, quando avevo diciassette anni. La mia bambinaia era malata, e io mi ritrovai a passare le vacanze estive con i miei genitori. Mio padre era di stanza là. Non badava molto a me, ma qualcun altro sì.»
«Sono passati tanti anni!»
«Loro sanno aspettare. E anch'io.»
«E la bambinaia-governante? Anche lei fa parte di Birdcall?»
«Non sa nulla, assolutamente nulla. È l'ultima persona che avrei scelto. È una vecchia stupida che vale appena la spesa di vitto e alloggio, ma mia madre la trova utile. Del resto la trovo utile anch'io: odia mia madre e da quando le ho raccontato che mammina cerca di spiare la mia vita, mi fa subito sapere se qualcuno telefona o si presenta a cercarmi. È un compito che contribuisce a renderle sopportabile la vita con la signora Amphlett, e a farle credere che le voglio bene.»
«Gliene vuoi davvero?»
«Una volta sì. Un bambino ha bisogno di qualcuno a cui voler bene, ma poi sono cresciuta. Comunque, c'è stata una telefonata e c'è stata una visita. Martedì mi ha chiamato uno scozzese, o qualcuno che fingeva di essere scozzese, e oggi c'è stata una visita.»
«Che genere di visita?»
«Uno giovane. Ha raccontato che mi aveva conosciuta in Francia: una balla! Era un impostore. Non c'è dubbio che facesse parte dell'MI5. Chi altri potrebbe averlo mandato?»
«Ma non puoi esserne sicura! Quanto meno, non tanto da mettere in moto il piano di emergenza, abbandonare tutto e affidarti a loro.»
«Ne sono certa. Senti, chi altri poteva essere? Ci sono stati tre episodi diversi: la cartolina, la telefonata, la visita. Cos'altro dovevo aspettare? Che i servizi di sicurezza mi venissero a buttare giù la porta di casa?»
«Che tipo era quello che è venuto a cercarti?»
«Giovane, nervoso, non molto simpatico. E neppure convincente: nemmeno la governante gli ha creduto.»
«Strano per essere un agente dell'MI5. Non avevano nessuno di meglio da mandare?»
«Doveva spacciarsi per uno che avevo conosciuto in Francia e che per rivedermi aveva trovato il coraggio di presentarsi a casa di mia madre. Era logico che fosse giovane e nervoso: era appunto il tipo d'uomo di cui avevano bisogno. Non potevano scegliere una consumata spia quarantenne. Sanno scegliere l'uomo adatto al compito che gli assegnano, è il loro mestiere. E quello era l'uomo adatto alla parte. Forse non doveva neppure sembrare convincente. Forse volevano spaventarmi, costringermi a reagire, a scoprirmi.»
«E infatti hai reagito, no? Ma se ti sbagli, se è tutto un errore, cosa faranno quelli per cui lavori? Con la tua fuga hai mandato all'aria l'Operazione Birdcall.»
«L'operazione è fallita, ma questo non avrà conseguenze sul futuro. Avevo ordine di telefonare se avessi avuto la prova sicura che eravamo stati scoperti. La prova c'è, e non è tutto: il telefono è sotto controllo.»
«Come fai a dirlo con certezza?»
«Non posso dirlo con certezza, ma lo so.»
«Come hai fatto con Remus?» chiese all'improvviso Amy. «Gli hai lasciato da mangiare e da bere?»
«No, naturalmente. Dovrà sembrare un incidente, dovranno credere che siamo due lesbiche uscite per una piccola gita notturna e che siamo annegate. Dovrà sembrare che avessimo intenzione di star fuori solo un paio d'ore. Di solito do da mangiare a Remus alle sette: dovranno trovarlo affamato e assetato.»
«Ma può darsi che non comincino a cercarci fino a lunedì! Sarà disperato, comincerà a piangere e ad abbaiare. E nei dintorni non c'è nessuno che possa sentirlo. Sei una maledetta carogna!»
Amy le si avventò addosso insultandola e cercando di graffiarle la faccia, ma Caroline era decisamente più forte di lei. Le afferrò i polsi con una stretta ferrea e la scagliò indietro. «Ma perché? Perché?» mormorò Amy fra le lacrime di rabbia e di desolazione.
«Per una causa per cui vale la pena di morire. Non ce ne sono molte.»
«Non c'è niente per cui valga la pena di morire, tranne forse un altro essere umano, qualcuno che ami. Darei la vita per Timmy.»
«Questa non è una causa, è sentimentalismo.»
«Se volessi dare la vita per una causa, me la sceglierei da sola. E non sarebbe certo il terrorismo. Non sarebbe per quei bastardi che mettono le bombe nei pub, fanno saltare in aria i miei amici e se ne fregano della gente comune perché non ci considerano importanti. Perchè noi comuni mortali non valiamo niente, non è così?»
«Dovevi sospettare qualcosa» ribatté Caroline. «Non sei un genio, ma non sei nemmeno una stupida. Non ti avrei scelta se non ne fossi stata sicura. Non mi hai mai chiesto niente, e se anche l'avessi fatto non avresti avuto una risposta, ma non potevi davvero credere che ci dessimo tanto da fare per qualche gattino spaventato o per i cuccioli di foca massacrati.»
Amy si chiese se ci aveva pensato. Forse la verità era che aveva creduto alle loro intenzioni, ma non che si proponessero di realizzarle. Non aveva dubitato della loro volontà, ma solo della loro capacità di agire. E nel frattempo era stato divertente partecipare a una cospirazione. L'esaltazione, la certezza di avere un segreto che non condivideva con Neil, il brivido di paura quando lasciava la roulotte dopo l'imbrunire per andare a nascondere le cartoline tra le rovine dell'abbazia. Si era nascosta dietro un frangiflutti crollato, trattenendo a stento una risata isterica, la notte in cui per poco non era stata sorpresa da Meg Dennison e Adam Dalgliesh. E il denaro le era stato utile: un pagamento generoso per un compito di così poco conto. In più c'era stato il sogno, l'immagine di una bandiera ancora sconosciuta, ma che sarebbe stata issata sulla centrale e che avrebbe ispirato rispetto, obbedienza, e una reazione immediata. Avrebbero detto a tutto il mondo: "Dovete smetterla. E subito!". Avrebbero parlato per gli animali prigionieri negli zoo, per le balene minacciate d'estinzione, le foche malate, gli animali torturati nei laboratori, le bestie terrorizzate trascinate nei macelli fra l'odore del sangue, le galline stipate nelle gabbie, ormai incapaci persino di beccare, per tutta la fauna sfruttata e maltrattata. Ma era stato soltanto un sogno. La realtà era quella: la barca che beccheggiava sotto i suoi piedi, il buio e la nebbia soffocante, le onde oleose che battevano contro la fragile chiglia. La realtà era la morte: non c'era nient'altro. Dal momento in cui aveva conosciuto Caroline in quel pub di Islington ed erano tornate insieme a piedi all'appartamento occupato, tutto nella sua vita aveva portato a quel momento di verità, a quel terrore.
«Voglio Timmy» gemette. «Il mio bambino, voglio il mio bambino!»
«Non è una separazione definitiva. Troveranno il modo di fartelo riavere.»
«Non dire fesserie. Che genere di vita farebbe in una banda di terroristi? Lo liquiderebbero come liquidano tutti gli altri.»
«E i tuoi genitori?» chiese Caroline. «Pensi che non lo terrebbero? Non potrebbero pensarci loro?»
«Sei pazza? Sono scappata di casa perché il mio patrigno picchiava mia madre. Quando ha cominciato a mettere le mani addosso anche a me, me ne sono andata. Credi che gli lascerei Timmy?»
Le era sembrato che a sua madre piacesse la violenza, o almeno le piaceva quello che veniva dopo. Gli ultimi due anni prima di scappare di casa le avevano insegnato una lezione: vai a letto solo con gli uomini che ti desiderano più di quanto tu desideri loro.
«E Pascoe?» riprese Caroline. «Sei sicura che non sappia niente?»
«Ma certo. Non eravamo neppure amanti. Lui non mi voleva e io non volevo lui.»
Ma c'era qualcuno che aveva desiderato: ricordò all'improvviso la passeggiata che aveva fatto con Alex tra le dune, l'odore del mare, della sabbia e del sudore, il suo volto serio e ironico. Be', non ne avrebbe parlato a Caroline. Anche lei aveva un segreto, e intendeva custodirlo.
Pensò agli strani percorsi che l'avevano condotta a quel luogo e a quel momento. Forse se fosse annegata tutta la sua vita le sarebbe balenata davanti agli occhi, come diceva la gente, e avrebbe rivissuto tutto, compreso quell'ultimo attimo. Ma adesso vedeva il passato come una serie di diapositive a colori che si succedevano rapide, un'immagine percepita per un momento, un'emozione che si prova per un solo istante prima che sparisca. Tutto a un tratto fu scossa da un brivido violento. «Ho freddo» disse.
«Ti avevo avvertito di venire ben coperta e senza borse. Quella tuta non è abbastanza pesante.»
«È l'unica cosa calda che ho.»
«Sul promontorio? E cosa ti metti d'inverno?»
«A volte Neil mi presta il cappotto. Ce lo dividiamo: chi esce se lo mette. Pensavamo che forse ne avremmo trovato uno anche per me tra la roba smessa della Vecchia Canonica.»
Caroline si tolse la giacca. «Ecco, metti questa.»
«No. È tua, non la voglio.»
«Mettila!»
«Ti ho detto che non la voglio.»
Ma come una bambina Amy lasciò che Caroline le infilasse le braccia nelle maniche e attese, obbediente, mentre l'altra le abbottonava la giacca. Poi si rannicchiò, si infilò quasi sotto lo stretto sedile che correva intorno alla barca, e cercò di non pensare alla minaccia delle onde che avanzavano silenziose. Per la prima volta nella sua vita le sembrava di percepire con ogni fibra del suo corpo l'inesorabile forza del mare. Vide con l'immaginazione il suo cadavere inerte che precipitava verso il fondo, verso gli scheletri di marinai annegati da molto tempo, verso le centine di antiche navi tra cui i pesci nuotavano incuranti. La nebbia, ora meno densa ma misteriosamente più spaventosa, era diventata una cosa viva che turbinava piano e respirava silenziosa; le rubava il fiato e la lasciava ansante, insinuandole in ogni poro un orrore viscido. Sembrava impossibile credere che esistesse la terra, finestre illuminate dietro le tende chiuse, la luce che usciva dalle porte dei pub, voci allegre, gente seduta al caldo, al sicuro. Vedeva la roulotte come l'aveva vista tante volte, di ritorno da Norwich di sera: un robusto rettangolo di legno che sembrava radicato sul promontorio e sfidava le bufere e il mare, con il chiarore caldo delle finestre, il pennacchio di fumo che usciva dal comignolo. Pensò a Timmy e a Neil. Quanto avrebbe aspettato Neil prima di chiamare la polizia? Non era il tipo da agire precipitosamente. Dopo tutto lei non era una bambina, aveva il diritto di andarsene. Forse non avrebbe fatto nulla fino all'indomani mattina, e forse neppure allora. Ma non aveva importanza, la polizia non poteva far nulla. Nessuno sapeva dov'erano, a parte quel giovane desolato che avevano lasciato sul molo, e se anche avesse dato l'allarme sarebbe stato troppo tardi. Era persino inutile credere ai terroristi: erano sperdute in quella tenebra umida e avrebbero continuato a girare in cerchio fino a che fosse finito il carburante. Poi sarebbero andate alla deriva e alla fine un battello costiero le avrebbe travolte.
Aveva perso il senso del tempo. Il rombo ritmico del motore la cullava, facendola scivolare in una specie di sorda apatia in cui le restava solo la consapevolezza del legno duro contro la schiena e della presenza di Caroline, intenta e immobile nel pozzetto.
Poi il motore si spense, e per qualche secondo il silenzio fu assoluto. Piano piano, mentre la barca sussultava lievemente sotto di lei, Amy cominciò a distinguere lo sciabordio dell'acqua e lo scricchiolio del legno. L'aria che respirava era umida e soffocante, sentiva il freddo che si insinuava nella giacca, nelle ossa. Sembrava impossibile che qualcuno riuscisse a trovarle in quella distesa desolata d'acqua e di vuoto... e ormai non le importava più che la trovassero o no.
«Il posto è questo» disse Caroline. «È qui che verranno a prenderci. Dobbiamo girare qui intorno fino al loro arrivo.»
Di nuovo Amy sentì il motore, ma questa volta era un suono appena percettibile. E all'improvviso comprese. Non fu un ragionamento conscio, solo una certezza folgorante e terribile, esplosa con la nitidezza di una visione. Per un secondo il suo cuore si arrestò, poi diede un guizzo e riprese a pompare energia in tutto il suo corpo. Si alzò di scatto. «Non hanno nessuna intenzione di portarmi a riva, vero? Mi uccideranno. E tu lo sai. L'hai sempre saputo. Mi hai portata qui perché mi uccidessero.»
Caroline teneva gli occhi fissi sulle due luci, il lampo intermittente del faro e il luccichio delle piatteforme della centrale. «Non fare l'isterica» le disse con freddezza.
«Non possono correre il rischio di lasciarmi andare, so troppe cose. L'hai detto anche tu che non servirei a niente. Ascolta: devi aiutarmi. Digli che ti sono stata utile, fagli credere che vale la pena di tenermi. Se riuscirò ad arrivare a terra, troverò il modo di scappare. Ma devo avere una possibilità... Caroline, sei stata tu a trascinarmi in questa storia: devi aiutarmi! Devo arrivare a terra. Ascoltami! Ascoltami, Caroline! Dobbiamo parlare.»
«Stai parlando. E quello che dici è ridicolo.»
«Davvero? Davvero, Caroline?»
Ora sapeva che non doveva supplicare. Avrebbe voluto gettarsi ai suoi piedi e urlarle: "Guardami, sono un essere umano. Sono una donna. Voglio vivere. Mio figlio ha bisogno di me. Come madre non valgo molto, ma Timmy ha me soltanto. Aiutami!". Ma con una saggezza istintiva, che nasceva dalla disperazione, sentiva che le implorazioni, i singhiozzi, il pianto avrebbero ispirato solo un rifiuto. Per cercare di salvarsi la vita doveva restare calma, affidarsi alla ragione. Doveva trovare le parole giuste. «Non si tratta solo di me» incominciò, «ma anche di te. Potrebbe essere questione di vita o di morte per tutte e due. Non sapranno che farsene neppure di te. Gli eri utile finché lavoravi a Larksoken, finché potevi passargli informazioni sul modo in cui funzionava la centrale, chi era di servizio e quando. Adesso sei un peso morto e sei pericolosa, proprio come me. Non c'è nessuna differenza. Che lavoro potresti fare per loro che giustifichi l'impegno e la spesa di mantenerti e darti una nuova identità? Non possono trovarti un posto in un'altra centrale. E se è vero che l'MI5 è sulle tue tracce, continuerà a cercarti. Forse non crederà all'incidente se il mare non porterà a riva i nostri cadaveri. E i nostri cadaveri non finiranno a riva a meno che ci uccidano... ed è quello che intendono fare. Cosa contano per loro due morti in più? Perché ci hanno dato appuntamento qui, tanto al largo? Avrebbero potuto venire a prenderci molto più vicino a terra. Avrebbero potuto portarci via in elicottero se avessero veramente bisogno di noi. Caroline, torniamo indietro. Non è troppo tardi. Potresti dire a quelli per cui lavori che era pericoloso uscire in mare, che c'era troppa nebbia. Troveranno un altro modo per portarti via se te ne vuoi andare. Io non parlerò, non ne avrei il coraggio. Te lo giuro. Possiamo tornare subito; saremo semplicemente due amiche che hanno fatto una gita in barca e sono rientrate sane e salve. È in gioco la mia salvezza, Caroline, e potrebbe essere in gioco anche la tua. Mi hai dato la giacca. Ti chiedo la vita.»
Non la toccò. Sapeva che un gesto sbagliato, forse qualunque gesto, poteva essere fatale. Ma sapeva anche che Caroline, con lo sguardo fisso nel vuoto, era giunta al momento decisivo. E mentre scrutava quel volto statuario, Amy si rese conto per la prima volta in vita sua di essere assolutamente sola. Persino i suoi amanti, che ora vedeva come una processione di facce imploranti e di mani avide, erano stati soltanto sconosciuti che le avevano dato l'illusione fuggevole di poter condividere la sua vita. Non aveva mai conosciuto Caroline, non poteva conoscerla, non poteva capire che cosa nel suo passato, forse nella sua infanzia, l'avesse portata a entrare in quella pericolosa cospirazione, l'avesse condotta fin lì. Erano così vicine da udire l'una il respiro dell'altra, da sentirne quasi l'odore. Eppure ciascuna di loro era sola, completamente sola, come se su quell'immensa distesa d'acqua non potessero navigare altre barche, non potesse trovarsi un altro essere umano. Forse erano destinate a morire insieme, ma ognuna avrebbe sofferto soltanto la propria fine, come aveva vissuto soltanto la propria vita. Non restava più nulla da dire: aveva perorato la sua causa, aveva esaurito tutte le parole. Adesso attendeva nell'oscurità e nel silenzio di sapere se davanti a lei c'era la vita o la morte.
Le parve che persino il tempo si fosse fermato. Caroline allungò una mano a spegnere il motore, e nello strano silenzio che seguì Amy sentì una specie di martellare sordo e insistente, il battito del proprio cuore. Poi Caroline parlò; la sua voce era calma e assorta, come se Amy le avesse posto un problema difficile da risolvere.
«Dobbiamo allontanarci dal punto fissato per l'incontro. Il nostro motore non è abbastanza potente da distanziarli se ci trovano e ci inseguono. Abbiamo una sola speranza: spegnere tutte le luci, allontanarci e restare in silenzio, sperando che con questa nebbia non riescano a trovarci.»
«Non possiamo tornare al porto?»
«Non c'è tempo. Sono più di dieci miglia e loro avranno una barca più grande della nostra. Se ci trovano, ci saranno addosso in pochi secondi. L'unica speranza è la nebbia.»
Fu allora che sentirono, smorzato ma nitido, il rumore di un'imbarcazione che si avvicinava. Istintivamente si strinsero l'una all'altra nel pozzetto, senza osare neppure bisbigliare. Sapevano che ormai se avevano una possibilità di salvarsi, questa consisteva nel silenzio, nella nebbia, nel tentativo di far passare inosservata la loro piccola barca. Ma il rumore del motore si fece man mano più vicino, e divenne un rombo regolare e vibrante, senza una fonte precisa. Si aspettavano di veder emergere lo scafo dall'oscurità, di trovarselo addosso, e invece il rumore rimase costante e Amy intuì che l'altra barca stava girando intorno a loro. All'improvviso non poté trattenere un grido. Un riflettore fendette la nebbia e brillò sulle loro facce. Colpita da quella luce abbacinante, non riusciva a distinguere altro che il gigantesco cono bianco in cui le particelle di nebbia ondeggiavano come un pulviscolo argenteo. Una voce straniera gridò in tono brusco: «È il Lark, partito dal porto di Wells?».
Ci fu un momento di silenzio, poi Amy sentì la voce di Caroline che rispondeva. Era alta e chiara, ma tradiva una nota di paura. «No. Siamo quattro amici partiti da Yarmouth, ma probabilmente attraccheremo a Wells. Va tutto bene. Non abbiamo bisogno di aiuto, grazie.»
Ma il riflettore non si spostò. La barca sembrava sospesa fra mare e cielo in uno sfolgorio di luce. I secondi passavano senza che nessuno parlasse. Poi il riflettore si spense e il rumore dei motori si allontanò. Per un momento rimasero in attesa, troppo spaventate per fiatare, accomunate dalla speranza che il trucco avesse funzionato. Ma non ci volle molto perché capissero: il riflettore si puntò di nuovo su di loro e i motori rombarono. L'imbarcazione uscì dalla nebbia, avventandoglisi contro. Caroline ebbe appena il tempo di appoggiare una guancia gelida su quella di Amy e di mormorare: «Mi dispiace. Mi dispiace».
Poi il grande scafo fu loro addosso. Amy sentì lo schianto del legno che si spaccava e le barca schizzò fuori dall'acqua. Venne scagliata attraverso un'eternità di tenebra umida e infine precipitò per una distanza infinita, nello spazio e nel tempo. Quindi venne l'urto violento con il mare e un freddo così intenso che per qualche secondo non sentì più nulla. Riprese i sensi quando riaffiorò, ansimando e lottando per respirare. Non badava più al freddo; c'era solo la tortura di un cerchio metallico che le opprimeva il petto, il terrore, lo sforzo disperato per tenere la testa fuori dall'acqua, per sopravvivere. Qualcosa di duro le picchiò contro il viso, poi si allontanò. Amy prese ad agitarsi freneticamente e riuscì ad aggrapparsi a un'asse. Se non altro era una possibilità. Vi appoggiò sopra le braccia e sentì finalmente allentarsi la tensione. Adesso era in grado di pensare: l'asse poteva sostenerla fino al mattino, quando la nebbia si sarebbe diradata. Ma nel frattempo sarebbe morta di freddo e di sfinimento. Raggiungere la riva a nuoto era la sua unica speranza; ma da che parte era la terraferma? Se la nebbia si fosse alzata avrebbe potuto vedere le luci, forse addirittura quelle della roulotte. Neil sarebbe stato là, a sbracciarsi per farle un segnale. Ma era assurdo. La roulotte era lontana chilometri e chilometri. Neil ormai doveva essere molto preoccupato, e lei non aveva nemmeno finito di preparare le buste. Forse Timmy piangeva e la chiamava. Doveva tornare da Timmy.
Infine il mare fu misericordioso. Il freddo che le intirizziva le braccia tanto da farle perdere la presa sull'asse, le stordì anche la mente. Stava scivolando nell'incoscienza quando il riflettore si puntò su di lei, ed era ormai al di là di ogni pensiero e di ogni paura quando l'imbarcazione virò e si lanciò a tutta forza contro di lei. Poi non rimase altro che il silenzio, l'oscurità, e un'unica asse di legno che ondeggiava lenta là dove il mare era macchiato di rosso.
45
Quel sabato sera Rickards arrivò a casa alle otto passate; era pur sempre più presto del solito, e per la prima volta dopo molte settimane, ebbe la sensazione di avere davanti a sé una serata ricca di possibilità: una cena tranquilla, un po' di televisione o di radio, i lavori di casa da sbrigare senza fretta, la telefonata a Susie, la prospettiva di andare a letto presto. Eppure era irrequieto; aveva finalmente a disposizione un po' di tempo libero, ma non sapeva come impiegarlo. Per un momento si chiese se non fosse meglio andare a cena fuori, ma lo sforzo di scegliere il ristorante, la spesa, persino la seccatura di dover prenotare gli sembrarono sproporzionati al piacere che ne avrebbe ricavato. Fece una doccia e si cambiò, come se l'acqua calda avesse il potere di purificarlo dal lavoro, dall'omicidio e dal fallimento, e il rito in sé fosse in grado di dare un senso alla sua serata. Poi aprì una scatola di faglioli, cucinò alla griglia quattro salsicce e un paio di pomodori, e portò il vassoio in salotto per mangiare davanti alla televisione.
Alle nove e venti spense l'apparecchio e per qualche minuto restò lì immobile, con il vassoio sulle ginocchia. Pensò che doveva sembrare un quadro moderno: Uomo con vassoio, una figura rigida, catturata in una scena più che comune ma con un che di straordinario, quasi sinistro. Mentre cercava di trovare l'energia per lavare i piatti, si sentì assalire dalla consueta depressione, come se fosse un estraneo in casa propria. Si era sentito a suo agio nella stanza con le pareti di pietra illuminate dal fuoco al Larksoken Mill, mentre beveva il whisky di Dalgliesh, più a suo agio di quanto si sentisse ora nel suo salotto, sulla sua poltrona, dopo aver consumato la sua cena. Non era solo l'assenza di Susie, la presenza impalpabile della moglie incinta sulla poltrona di fronte. Si sorprese a confrontare le due stanze, a cercare la chiave delle sue diverse reazioni a un avvilimento di cui il salotto era in parte un simbolo e in parte una causa. Non era solo perché al mulino c'era un fuoco vero che scoppiettava, lanciava autentiche scintille e aveva l'odore dell'autunno, mentre il suo era il fuoco finto in un caminetto elettrico; non era solo perché i mobili di Dalgliesh erano antichi e levigati dai secoli, disposti pensando alla comodità e non alla scena; e neppure il fatto che alle pareti erano appesi oli e acquerelli autentici, o che tutta la stanza era stata messa insieme senza dare troppa importanza a un singolo elemento. La differenza, pensò, stava soprattutto nei libri, le due pareti rivestite di scaffali carichi di libri di ogni tipo, libri per il piacere della lettura. Lui e Susie tenevano la loro piccola collezione in camera da letto. Susie aveva deciso che era un insieme troppo eterogeneo e troppo malridotto per meritare un posto in quella che lei chiamava la sala: e non era nemmeno una biblioteca molto nutrita. Negli ultimi anni Rickards aveva avuto poco tempo per leggere: una raccolta di moderni romanzi d'avventura in edizione tascabile, quattro volumi di un club degli editori a cui era stato iscritto per un paio d'anni, qualche guida turistica rilegata, manuali della polizia, i premi vinti da Susie alla scuola di economia domestica. Ma un bambino doveva crescere fra i libri. Aveva letto chissà dove che quello era il modo migliore per incominciare a vivere: essere circondato da libri, avere genitori che incoraggiano la lettura. Forse potevano mettere qualche mensola ai lati del camino e iniziare da lì. Dickens, a scuola gli era piaciuto tanto, e poi Shakespeare naturalmente, e i principali poeti inglesi. Sua figlia (lui e Susie erano convinti che sarebbe stata una bambina) avrebbe imparato ad amare la poesia.
Ma tutto questo doveva aspettare. Per il momento poteva almeno cominciare a sbrigare i lavori di casa. L'aria di cupa pretenziosità della stanza, si disse, era dovuta in parte alla polvere. Sembrava la stanza poco pulita di un albergo a cui nessuno teneva perché non c'erano ospiti in arrivo, e anche quei pochi che ci fossero capitati non ci avrebbero badato. Adesso si rendeva conto che avrebbe dovuto tenere la signora Adcock, la domestica che veniva a pulire ogni mercoledì per tre ore. Ma aveva lavorato per loro soltanto durante gli ultimi due mesi della gravidanza di Susie, e dato che era praticamente un'estranea non gli andava di consegnarle le chiavi di casa... più per amore della loro privacy che per sfiducia. Così, nonostanti i dubbi di Susie, le aveva pagato una specie di liquidazione e aveva detto che si sarebbe arrangiato. Finì di caricare la lavastoviglie con i piatti della cena e prese dal cassetto uno degli strofinacci accuratamente piegati. Uno spesso strato di polvere si era depositato su tutti i mobili. Passò lo straccio sul davanzale della finestra del salotto e notò con stupore la riga nera del sudiciume incrostato.
Passò nel corridoio. Il ciclamino sul tavolo accanto al telefono era inspiegabilmente avvizzito, sebbene ogni giorno lo innaffiasse in fretta e furia, o forse proprio per quello. Stava lì con lo straccio in mano a chiedersi se era il caso di buttare via la pianta o se si poteva ancora tentare di salvarla, quando sentì lo scricchiolio delle ruote di un'auto sulla ghiaia. Aprì la porta, e poi d'un tratto la spalancò con tanta forza che tornò a chiudersi sbattendo alle sue spalle, facendo scattare la serratura. Rickards si precipitò accanto al taxi e accolse delicatamente tra le braccia la figura pesante di sua moglie.
«Tesoro! Oh, tesoro mio, perché non hai telefonato?»
Susie si appoggiò a lui e Rickards notò con tenerezza la carnagione cerea e i cerchi sotto gli occhi. Attraverso il pesante tweed del cappotto gli sembrava addirittura di sentire i movimenti del bambino.
«Non potevo aspettare. La mamma era andata a trovare la signora Blenkinsop, una vicina. Ho avuto appena il tempo di chiamare un taxi e di scriverle un biglietto. Dovevo assolutamente tornare a casa. Non sei arrabbiato?»
«Oh, amore mio, tesoro. Stai bene?»
«Sono solo stanca.» Susie rise. «Ti sei chiuso fuori! Per fortuna ho la mia chiave.»
Rickards le prese la borsetta, e si mise a frugare alla ricerca della chiave e del portafoglio con cui pagare il taxista che nel frattempo aveva scaricato davanti alla porta l'unica valigia di Susie. Le mani gli tremavano tanto che stentava a infilare la chiave nella serratura. Sorresse la moglie e la fece sedere sulla poltrona nell'ingresso.
«Resta seduta qui, tesoro. Vado a sistemare la valigia.»
«Terry, il ciclamino è morto. L'hai innaffiato troppo.»
«No, è morto perché pativa la tua mancanza.»
Susie rise. Era una risata squillante, felice. Rickards avrebbe voluto prenderla tra le braccia e gridare a gran voce, ma lei si fece di nuovo tutta seria e chiese: «Ha già telefonato la mamma?».
«Non ancora, ma lo farà presto.»
In quel preciso istante, come se quelle parole fossero siate un segnale, il telefono squillò. Rickards rispose immediatamente; aspettandosi di sentire la voce della suocera, finalmente non provava né paura né ansia. Con quel gesto magnifico Susie li aveva messi per sempre in salvo dal potere distruttivo di sua madre. Gli sembrava di essere stato strappato all'infelicità da un'ondata gigantesca che l'aveva depositato a terra con i piedi ben saldi su una roccia. Per un secondo colse l'espressione preoccupata di Susie, le contraeva il volto come uno spasmo di dolore, poi la vide alzarsi faticosamente e avvicinarsi a lui per prendergli la mano. Ma non era la signora Cartwright.
Era Oliphant. «Jonathan Reeves ha telefonato alla sede del comando, signore, e lo hanno passato a me. Dice che Caroline Amphlett e Amy Camm sono uscite insieme in barca. Sono partite ormai da tre ore e la nebbia si sta facendo sempre più fitta.»
«E allora perché ha chiamato la polizia? Avrebbe dovuto avvertire la guardia costiera.»
«Ci ho pensato io, signore. Ma non è stato solo per questo che ha telefonato: lui e la Amphlett non avevano passato insieme la sera della scorsa domenica. Lei era sul promontorio. Reeves voleva dirci che la Amphlett aveva mentito, e che aveva mentito anche lui.»
«Non credo che siano stati gli unici. Li chiameremo domattina e sentiremo cos'hanno da dirci. Sono sicuro che la Amphlett avrà una spiegazione.»
«Ma perché avrebbe dovuto mentire se non aveva niente da nascondere?» insistette Oliphant. «E non si tratta solo del falso alibi: Reeves dice che il loro rapporto era tutta una commedia, che lei fingeva di amarlo per coprire una relazione omosessuale con la Camm. Io penso che le due donne fossero coinvolte insieme nel delitto, signore. La Amphlett doveva sapere che la Robarts andava a nuotare di notte. Lo sapevano tutti i dipendenti di Larksoken. E lei lavora a fianco di Mair, è la sua più stretta collaboratrice. È la sua assistente personale. Lui poteva averle raccontato i dettagli di quella cena, inclusa la tecnica del Fischiatore. Non sarebbe stato un problema procurarsi le Bumble. La Camm sapeva della cesta con le scarpe, se non lo sapeva anche la Amphlett. Diversi indumenti del suo bambino venivano dalla Vecchia Canonica.»
«Prendere le scarpe non sarebbe stato un problema, ma usarle per camminarci sì. Nessuna delle due è alta» osservò Rickards.
Oliphant si rifiutò di dar peso a quella che doveva sembrargli un'obiezione puerile. «Ma non avrebbero avuto il tempo di provarle. Meglio un paio troppo grande che uno troppo piccolo, e scarpe morbide piuttosto che di pelle. E poi la Camm aveva un movente, signore, un doppio movente: quando la Robarts aveva dato una spinta al suo bambino, lei l'aveva minacciata. C'è la testimonianza della signora Jago su questo episodio. E se la Camm voleva continuare a vivere nella roulotte, vicino alla sua amante, doveva trovare il modo di bloccare la querela della Robarts contro Pascoe. Quasi sicuramente sapeva dove andava a nuotare di notte. Se non gliel'ha detto la Amphlett, può averglielo detto Pascoe Ha ammesso con noi di averla spiata ogni tanto, quello sporcaccione. E c'è un'altra cosa. La Camm ha un guinzaglio. E se è per questo, ne ha uno anche la Amphlett. Reeves ha detto che domenica sera era andata a far correre il cane sul promontorio.»
«Non c'erano impronte di cane sul luogo del delitto, sergente. Non si agiti troppo... può darsi che la Ampnlett fosse sul posto, ma il cane non c'era.»
«L'avrà lasciato in macchina, signore. O forse non se l'è neanche portato dietro. Ma credo che abbia usato il guinzaglio. E non è finita qui: i due bicchieri di vino al Thyme Cottage! Secondo me la Robarts era con Caroline Amphlett prima di andare a fare l'ultima nuotata. Come dicevamo, è l'assistente personale di Mair; la Robarts l'avrebbe fatta entrare senza troppe domande. Tutto combacia, signore: è un caso inconfutabile.»
Rickards pensò che quel caso in realtà faceva acqua da tutte le parti, ma in un certo senso Oliphant aveva ragione: qualcosa c'era, anche se per il momento non esisteva l'ombra di una prova. Non doveva lasciarsi influenzare dall'antipatia che provava per quell'uomo. E c'era un fatto di una certezza deprimente, se avessero arrestato un altro sospetto, quell'ipotesi, nonostante l'assenza di prove concrete, sarebbe stata una benedizione per qualsiasi avvocato difensore.
«Ingegnoso» disse, «ma puramente indiziario. Comunque può attendere fino a domani. Per stanotte non possiamo far nulla.»
«Dovremmo vedere Reeves, signore. È possibile che cambi versione prima di domani mattina.»
«Gli parli lei. E mi faccia sapere quando ritornano la Camm e la Amphlett. Ci vediamo a Hoveton alle otto. Intendo convocarle e voglio che nessuna delle due venga interrogata prima che le abbia viste io, domani. Ci siamo capiti?»
«Sissignore. Buonanotte, signore.»
«Se ritieni di dover andare, caro, non preoccuparti per me. Andrà tutto bene ora che sono a casa» disse Susie quando Rickards ebbe riattaccato il ricevitore.
«Non è urgente. Oliphant può cavarsela da solo. Gli piacciono queste responsabilità, facciamo contento jumbo.»
«Non voglio esserti d'intralcio, caro. La mamma pensava che saresti stato meglio con me lontana.»
Rickards si voltò e la prese fra le braccia. Sentì le proprie lacrime che scorrevano calde sulla guancia della moglie. «Io non sto mai bene quando non ci sei» rispose.
46
I cadaveri vennero buttati a riva due giorni dopo, tre chilometri a sud di Hunstaton. O almeno venne buttato a riva quanto bastava a rendere certa l'identificazione. Il lunedì mattina un funzionario del fisco in pensione, che aveva portato il suo dalmata a correre sulla spiaggia, vide che il cane fiutava qualcosa che sembrava un grande pezzo bianco di lardo avvolto nelle alghe, portato su e giù dalla risacca, al margine della marea. Mentre si avvicinava, l'ammasso venne riportato indietro per essere poi ributtato ai suoi piedi. L'ex funzionario si ritrovò a guardare inorridito e incredulo il tronco di una donna, tranciato nettamente all'altezza della vita. Per un momento rimase impietrito a fissarlo mentre la spuma riempiva l'orbita sinistra vuota e lavava i seni appiattiti. Poi si voltò e vomitò irrefrenabilmente prima di avviarsi come un ubriaco su per il tratto sassoso, trascinando il cane per il collare.
Il corpo di Caroline Amphlett fu portato a riva intatto dalla stessa marea, insieme ad alcune assi della barca e parte del tetto della cabina. Venne ritrovato da Billy il Matto, un barbone mite e innocuo, in una delle sue abituali sortite sulla spiaggia. Al primo momento fu il legno ad attirare la sua attenzione; tirò a riva le assi dando in gridolini di gioia. Poi, dopo aver messo al sicuro quel tesoro, si rivolse perplesso al cadavere della ragazza annegata. Non era il primo morto che gli capitava di trovare in quarant'anni passati a battere le spiagge, e sapeva cosa doveva fare e chi avvertire. Le passò le mani sotto le ascelle e la trascinò sulla spiaggia all'asciutto. Quindi, gemendo sommessamente, come per lamentare la propria goffaggine e l'immobilità della ragazza, le si inginocchiò accanto, si tolse il giubbotto e lo stese sopra gli stracci laceri della camicia e dei calzoni della morta.
«Va meglio così?» chiese. «Eh, va meglio?»
Poi allungò la mano a scostarle delicatamente i capelli dagli occhi, e dondolandosi avanti e indietro cominciò a canticchiarle una nenia, come si fa con i bambini.
47
Il giovedì dopo pranzo Dalgliesh andò tre volte a piedi fino alla roulotte, senza mai trovarvi Neil Pascoe. Non voleva telefonare per accertarsi che fosse tornato perché non aveva una scusa valida per andarlo a trovare e preferiva dare l'impressione di passare di lì per caso, come se la decisione di fermarsi fosse dovuta a un impulso improvviso. In un certo senso avrebbe potuto farla passare per una visita di condoglianze; ma conosceva Amy Camm soltanto di vista, e gli sembrava un pretesto falso e poco convincente. Poco dopo le cinque, quando la luce cominciava ad affievolirsi, tentò di nuovo. Questa volta la porta della roulotte era aperta, ma di Pascoe non c'era traccia. Mentre si guardava intorno esitante, scorse una spira di fumo che si alzava oltre la scogliera, seguita da un breve lampo di fiamma, e l'aria si riempì improvvisamente dell'odore acre di un falò.
Dal ciglio della scogliera Dalgliesh vide una scena straordinaria. Pascoe aveva costruito un rudimentale focolare fatto di grosse pietre e pezzi di cemento, e vi aveva acceso un fuoco di fascine su cui ora gettava carte, fascicoli, scatoloni, bottiglie e quello che sembrava un assortimento di vestiti. Sul mucchio di roba che attendeva di finire nel falò era appoggiato il lettino di Timmy, anche quello di sicuro destinato alle fiamme. Da una parte Pascoe aveva messo un materasso sporco piegato a mo' di posticcio e inutile paravento. Lui indossava solo un paio di calzoncini luridi e lavorava come un invasato. Gli occhi si aprivano come dischi bianchi sul volto annerito, le braccia e il petto nudo luccicavano di sudore. Mentre Dalgliesh scendeva scivolando lungo il pendio sabbioso e si avvicinava al fuoco, Pascoe gli rivolse un cenno come per prendere atto della sua presenza, e si mise a trascinare fuori da sotto le sbarre del lettino una valigetta malconcia. Poi prese lo slancio, tenendosi in equilibrio a gambe larghe sul bordo del focolare. Il suo corpo luccicava nel riflesso rossastro delle fiamme, e per un momento sembrò trasparente come se fosse illuminato dall'interno. Grosse gocce di sudore gli scorrevano come sangue dalle spalle. Con un grido sollevò la valigia sopra il fuoco e la aprì. Gli indumenti da bambino caddero in una pioggia colorata e le fiamme saettarono come lingue vive per afferrare a mezz'aria i vestitini di lana, li fecero turbinare un attimo come torce per poi lasciarli ricadere anneriti nel cuore del falò. Pascoe rimase fermo per un momento, ansimante, quindi balzò giù con un grido che era per metà di esultanza e per metà di disperazione. Dalgliesh poteva capire e in parte condividere quel senso di potenza nel miscuglio tumultuoso di vento, fuoco e acqua. A ogni folata le fiamme ruggivano e sibilavano, e attraverso il baluginio del calore le onde sembravano screziate di sangue. Quando Pascoe buttò nel fuoco il contenuto di un'altra cassetta, i fogli di carta bruciacchiati si alzarono danzando come uccelli frenetici, portati dal vento si spinsero incontro a Dalgliesh e andarono infine a posarsi sulle pietre asciutte come un contagio nero. Il fumo gli bruciava gli occhi.
«Non sta inquinando la spiaggia?» gridò a Pascoe.
L'altro si voltò e per la prima volta gli rivolse la parola, gridando anche lui per riuscire a farsi sentire al disopra del crepitio delle fiamme. «Che importanza ha? Tanto stiamo inquinando tutto il pianeta.»
«Gli butti sopra un po' di sabbia e lo lasci stare fino a domani. Questa sera c'è troppo vento per un falò.»
Dalgliesh, che non si aspettava alcuna reazione, rimase sorpreso nel constatare che le sue parole avevano apparentemente richiamato Pascoe alla realtà. In un attimo parve perdere tutta la sua esultanza e il suo vigore, e guardando il fuoco disse con voce assente: «Forse ha ragione».
Accanto al mucchio della roba da bruciare c'erano un badile e una pala arrugginita, e i due uomini si misero a lavorare, buttando sabbia sulle fiamme. Quando l'ultima lingua rossa si spense con un sibilo rabbioso, Pascoe si voltò e si incamminò lentamente su per la spiaggia, in direzione della scogliera. Dalgliesh lo seguì. La domanda che temeva di sentirsi rivolgere - È venuto di proposito? Perché vuole vedermi? - non venne pronunciata. In apparenza Pascoe non ci stava neppure pensando.
Entrarono nella roulotte e Pascoe chiuse la porta con un calcio, dopodiché piombò a sedere sulla panca accanto al tavolo. «Vuole una birra?» chiese. «C'è anche del tè, ma il caffè l'ho finito.»
«Niente, grazie.»
Dalgliesh si sedette e restò a guardare mentre Pascoe si avvicinava barcollando al frigorifero. Tornò al tavolo, aprì la lattina e rovesciò indietro la testa, versando in gola la birra in un fiotto quasi continuo. Poi si piegò in avanti, continuando a stringere la lattina. Nessuno dei due parlò. Dalgliesh aveva l'impressione che l'altro non si accorgesse neppure della sua presenza. Nella roulotte era buio e la faccia di Pascoe era un ovale indistinto in cui il bianco degli occhi aveva una luminosità innaturale. A un tratto si alzò, mormorando qualcosa a proposito dei fiammiferi. Pochi secondi dopo si sentì uno sfregolio e un sibilo, e le sue mani si tesero verso la lampada a petrolio, appoggiata sul tavolo. Nel nuovo chiarore il suo viso coperto da un velo di fumo e di polvere appariva tirato, gli occhi offuscati dalla sofferenza. Il vento scuoteva la roulotte, non violentemente, ma facendola ondeggiare a un ritmo dolce e regolare, come se ci fosse una mano invisibile a cullarla. La porta scorrevole del compartimento in fondo era aperta, mostrando a Dalgliesh un mucchio di indumenti femminili e una massa di tubetti, barattoli e boccette buttati sul letto. A parte questo la roulotte era ordinata ma spoglia: più che un'abitazione era un rifugio temporaneo e mal attrezzato, che tuttavia conservava ancora l'odore inconfondibile di un bambino, un misto di latte e pannolini. L'assenza di Timmy e di sua madre pervadeva la roulotte e i pensieri dei due uomini.
Dopo qualche minuto di silenzio, Pascoe alzò la testa. «Stavo bruciando i documenti del PANUP insieme al resto. Probabilmente l'ha immaginato. È sempre stato inutile. Mi sono servito del PANUP solo per sentirmi importante. Del resto me l'aveva detto anche lei, quella volta che sono venuto al mulino.»
«Ho detto così? Non ne avevo il diritto. Ora cosa farà?»
«Andrò a Londra a cercar lavoro. L'università non mi prorogherà il sussidio per un altro anno, e non le do torto. Preferirei tornare nel nord-est, ma credo che Londra mi offra maggiori possibilità.»
«Che lavoro cerca?»
«Uno qualunque. Non mi interessa quello che farò, purché mi renda quattrini e nessuno ci possa speculare.»
«Cosa ne è stato di Timmy?»
«L'hanno portato via, avevano una specie di mandato. Ieri sono venute due assistenti sociali, due persone a posto, ma Timmy non voleva andare con loro. Hanno dovuto strapparmelo dalle braccia. E lui strillava. Che società è la nostra se tratta così i bambini?»
«Che altro potevano fare?» chiese Dalgliesh. «Bisogna pensare al suo futuro. Dopo tutto non poteva restare con lei per sempre.»
«Perché no? Ho avuto cura di lui per più di un anno. E almeno mi sarebbe rimasto qualcosa, dopo questo disastro.»
«Hanno rintracciato la famiglia di Amy?»
«Non hanno avuto molto tempo per farlo, le pare? E quando la troveranno, non credo che me lo verranno a raccontare. Timmy è vissuto qui per più di un anno, ma io conto meno dei nonni che non l'hanno mai visto e probabilmente se ne fregano di lui.»
Pascoe stringeva ancora la lattina. La rigirò fra le mani e poi riprese: «Quello che mi brucia è l'inganno. Credevo che non mi importasse. Oh, non per me, ma per quello che cercavo di fare. Era tutta una finzione. Si serviva di me e di questo posto per stare vicina a Caroline».
«Ma non è possibile che si frequentassero molto» obiettò Dalgliesh.
«Come faccio a saperlo? Mentre io non c'ero probabilmente scappava a incontrarsi con la sua amante. Timmy deve aver passato ore e ore da solo. Se ne infischiava di lui, i gatti erano più importanti. Li ha presi la signora Jago, staranno benone. A volte, la domenica pomeriggio, mi diceva in faccia che andava a incontrarsi con l'amante sulle dune. Pensavo che fosse uno scherzo, non potevo credere che fosse vero. E intanto lei e Caroline erano là a fare l'amore e a ridere di me.»
«C'è soltanto la testimonianza di Reeves a far supporre che fossero amanti» osservò Dalgliesh. «Può darsi che Caroline gli abbia mentito.»
«No, no, non mentiva. Lo so. Si servivano di noi... di me e di Reeves. Amy non era... be', non è che il sesso non le interessasse. Siamo vissuti insieme per più di un anno. La seconda notte... sì, si è offerta di venire a letto con me. Ma era solo un modo per ripagarmi il vitto e l'alloggio. Non sarebbe stato giusto. Dopo un po' di tempo però, ho cominciato a sperare. Voglio dire, vivevamo qui insieme, avevo cominciato a volerle bene. Ma a lei non è mai interessato avermi vicino. E quando tornava dalle sue passeggiate domenicali, io sapevo. Fingevo con me stesso di non capire, ma invece sapevo. Era esultante, splendeva di felicità.»
«Senta, sarebbe davvero tanto importante per lei quella relazione con Caroline, anche se fosse vera? Condividevate affetto, amicizia, cameratismo, tenerezza per Timmy... e tutto questo non dovrebbe più contare nulla perché Amy viveva la sua sessualità fuori dalle pareti di questa roulotte?»
«Dovrei dimenticare e perdonare?» ribatté Pascoe amaramente. «A sentire lei sembra facile.»
«Non penso che possa dimenticare, né che lo voglia. Ma non capisco perché lei usi il termine "perdonare". Amy non le aveva mai promesso più di quanto abbia dato.»
«Lei mi disprezza, vero?»
Dalgliesh pensò che l'egocentrismo degli infelici è davvero sgradevole, ma c'erano alcune domande che doveva fare. «E Amy non ha lasciato niente?... Documenti, diari, qualcosa che dicesse cosa faceva sul promontorio?»
«Niente. Lo so io cosa faceva qui, perché era venuta: per stare vicina a Caroline.»
«Aveva denaro? Anche se lei la manteneva, doveva avere qualcosa di suo.»
«Aveva sempre un po' di contanti, ma non so dove li prendesse. Non me lo diceva e a me non andava di chiederglielo. So che non riceveva un soldo dall'assistenza. Diceva che non voleva che venissero a curiosare per scoprire se andavamo a letto insieme. Non aveva torto, non lo volevo neppure io.»
«Posta ne riceveva?»
«Ogni tanto le arrivava qualche cartolina. Anzi, abbastanza regolarmente, quindi doveva avere qualche amico a Londra. Non so cosa ne facesse... credo le buttasse via. Nella roulotte non ho trovato niente, tranne i suoi vestiti e la roba per il trucco. Ma brucerò anche quelli, poi non resterà più niente a dimostrare che ha vissuto qui.»
«E il delitto?» chiese Dalgliesh. «Crede che sia stata Caroline Amphlett a uccidere la Robarts?»
«Può darsi. Non mi interessa, non ha più importanza. E se anche non è stata lei, Rickards potrà farne comunque un capro espiatorio, di lei e di Amy insieme.»
«Però lei non crede che Amy fosse capace di rendersi complice di un omicidio.»
Pascoe fissò Dalgliesh con l'aria frustrata e incollerita di un bambino che si sforza di capire. «Non lo so! Senta, non la conoscevo veramente! È questo che sto cercando di dirle. Non lo so! E adesso che Timmy non c'è più, non me ne importa. Sono così confuso... furioso per quello che Amy mi ha fatto, per quello che era... e addolorato perché è morta. Non pensavo che fosse possibile provare dolore e rabbia nello stesso tempo. Dovrei piangerla, ma provo solo questa terribile collera.»
«Oh, sì» disse Dalgliesh. «Si può provare rabbia e dolore insieme. È la sensazione più comune quando si perde una persona cara.»
All'improvviso Pascoe scoppiò in lacrime. La lattina vuota tintinnò contro il tavolo e lui chinò la testa. Gli tremavano le spalle. Le donne, pensò Dalgliesh, sanno affrontare il dolore meglio degli uomini. Tante volte aveva visto le donne poliziotto avvicinarsi istintivamente ad abbracciare la madre straziata, il bambino smarrito. Anche certi uomini ci sapevano fare: Rickards, per esempio... almeno un tempo. In quanto a lui, sapeva usare le parole, ma d'altra parte questo faceva parte del suo mestiere. Trovava difficile invece tutto quello che veniva spontaneo a quanti avevano un animo veramente generoso: la disponibilità al contatto fisico. Era perché era lì con un pretesto, pensò. Se non fosse stato così, forse anche lui si sarebbe sentito all'altezza della situazione.